Il presente porta visibilmente con sé, nei nostri corpi, tutta la nostra storia, pretende un'attenzione che ci lega oltre il privato, oltre l'individualità, oltre l'identità, senza le quali tuttavia la vita non avrebbe senso per il futuro, non ne avrebbe avuto mai nel passato.
Adriana Perrotta, Paolo Rabissi

martedì 7 maggio 2013




Ma che tipo di rapporto si stabilisce tra un poeta e una femminista?
Mi sembra che la femminista abbia bisogno di affrontare direttamente la realtà, il poeta è spesso obliquo, tangente, allusivo, dice e non dice, avvicina cose lontane o allontana cose vicine. Piuttosto contradditorio perché sulle verità del mondo ha poco da dire e tuttavia non se ne sente lontano, pensa piuttosto che il suo verso sia un modo per avvicinarsi ad esse senza mai raggiungerle. In questo insegue una logica illogica, non aristotelica. E’ la logica dei sogni nei quali si accampano io e non-io contemporaneamente, in cui sei attore e spettatore contemporaneamente. E tuttavia è sbagliato pensare che il poeta se ne stia accoccolato nei suoi sogni. Il suo rapporto con la realtà è ovviamente soggettivo ma vale quello di chiunque altro. In questa realtà valgono le leggi simmetriche e non quelle oniriche, la logica aristotelica, la logica governata dal principio di non contraddizione. Qui allora maschio e femmina si relazionano ma qui la femminista opera il suo scarto che la mette in una condizione molto simile a quella del poeta. Nel senso che anche lei mette in gioco una dimensione di sogni e utopie che riguardano la coscienza, l’intelligenza delle cose, il corpo, i sensi, i sentimenti. Che poi non lo faccia in versi ma anche con altre forme di espressione che la nostra civiltà tecnologica mette a disposizione questo è indice di fantasia. Del resto, è noto, lo fa anche in versi.  

venerdì 12 aprile 2013

Quando parlo di identità di poeta mi riferisco al fatto che esistono canoni di riferimento, anche se superati o abbandonati, che permettono di valutare se si è o no poeti. Questo senza considerare se si è buoni o cattivi poeti.
Se si è versificatori o artisti, ma uno che scrive in versi/prose poetiche è chiamato poeta, uno che dipinge è chiamato pittore, e così di seguito.
Tutt'al più si può parlare di dilettantismo, di naivité.
Non esiste -o meglio non  dovrebbe esistere- un canone, una norma per distinguere una buona femminista da una cattiva femminista, mancando qualsiasi elemento terzo rispetto al quale confrontare idee, comportamenti, intenzioni, atteggiamenti.

mercoledì 10 aprile 2013


Margaret Thatcher, è stata prima ministra del Regno Unito dal 1979 al 1990, unica donna sin qui ad aver ricoperto questa carica.
L'ha guidata l'odio di classe, l'ha guidata l'odio per tutto ciò che odorava di rispetto, socialista o comunista che fosse, per le genti sottomesse piegate dallo sfruttamento dell'organizzazione capitalistica del lavoro. A tren'anni un giovane che non si è ancora comprato una casa è un fallito, diceva. Il cinismo criminale che l'ha guidata era frutto delle frustrazioni di classe dalle quali proveniva e non c'è niente di peggio che il revanscismo pieno di livore di chi ha potere. Come ha fatto ad avere tanto potere? Il fiuto politico non le è certo mancato, ha saputo cogliere l'occasione, degna in questo di una nipotina di Machiavelli, ha fiutato prima degli altri che quella organizzazione del profitto per i ricchi andava cambiata perché non rendeva più e che lo si poteva fare perché i rapporti di forza stavano cambiando. Il movimento operaio occidentale e L'URSS stavano cominciando a segnare il passo a mano a mano che la capacità espansiva del fordismo e dei grassi profitti legati ad esso, pur con le concessioni del Wellfare, venivano meno. Ha rischiato molto a essere la prima ma è stata valanga, il partner Reagan e il bravo Bush le hanno poi aperto le autostrade. Il tutto in nome del neoliberismo, nel quale ovviamente le teste pensanti non si sono certo riconosciute, si trattava in realtà del capitalismo più selvaggio del secolo, quello più predatorio e riservato alle élites finanziarie. Per forza che passerà alla storia. Anche perché era una donna, e questo la dice lunga sulla sussunzione in proprio di certe donne dei canoni fondamentali del patriarcato, dai quali secondo alcun* saremmo liberi, confondendolo con l'emancipazionismo spicciolo. Una brutta donna. Non una donna brutta, ché questo c'interessa davvero niente.

lunedì 8 aprile 2013

Ho fatto un salto sulla sedia. L'identità del poeta è incontrovertibile? Proprio nel senso suggerito dal Dizionario come ciò o colui al quale è attribuito un valore di verità tale da non ammettere dubbi, esitazioni, dibattiti, repliche? Ma dai.
Una volta, in una delle mie visite a G. N., gli confidai che ogni tanto mi sentivo quasi di usurpare il titolo di poeta. Come 'ogni tanto', mi rispose, io dubito di essere un poeta almeno cinquanta volte al giorno. E lo diceva lui che potrebbe legittimamente sopportare il peso di quell'incontrovertibile. Da allora ho smesso di pensarci. Però so bene che certe cose che ho scritto non possono che andare sotto la denominazione di poesia. Non saprei dove altrimenti collocarle. Ma credo che questo succeda anche a te: all'etichetta, nata per orientare, è difficile sfuggire, un po' per comodità e un po' per supporto all'identità.
Ma non sei poeta per sempre. Né ci nasci. A un certo punto della mia vita mi sono reso conto  che c'era un tipo di linguaggio che mi piaceva usare che non era quello di tutti i giorni, nemmeno a scuola. Un giorno ho scritto 'una spallata di rose'. Avevo sedici anni. Mi sono chiesto spesso da dove mi era venuta l'idea di unire una spallata con le rose. Ma mi piaceva moltissimo, infatti me la ricordo ancora.  Ma questo linguaggio può cessare di interessarti. L'amico G.N. ha annunciato che non scriverà più versi, è più interessato alla prosa. Anche T.R. ultimamente dice di scrivere solo in prosa (ma, e questo è un discorso a parte, l'amico Coviello, che di poesia se ne intende, lo invita nella sua Officina milanese e presenta giustamente come poesia le sue prose!).
Non è la stessa cosa per la femminista?
Insomma se ci possono essere buoni o cattivi poeti credo che possano esserci anche buone o cattive femministe.
Certo non credo invece a poeti e femministe perfetti. Ma hai ragione a dire che tra gli uni e le altre ci sono quell* che parlano come se lo fossero. Conosco esemplari di entrambe le categorie. Tra gli uni che ti fanno capire, dalle loro posture, vestimenti, ecc. che sono direttamente in contatto con l'iperuranio poetico al quale attingono per privilegio. Tra le altre che ti fanno capire che la comprensione dei problemi è sempre un passino più in là rispetto a dove li collochi tu. Comunque, perfetti o meno, per quanto dicono, per come lo dicono, non potrei che collocarli tra poeti e femministe.


domenica 7 aprile 2013

Se paliamo di mito identitario noto un'asimmetria tra noi due: l'identità di poeta è incontrovertibile, possono esserci buoni o cattivi poeti, dilettanti, naifs, o seri e impegnati, ma sempre di poeti si tratta.
Non è la stessa cosa per l'identità di femminista: possono esistere le buone o le cattive femministe?
E' maldestro il tentativo di assegnare meriti o demeriti a pratiche politiche e a teorie che divergono tra loro.
Non può esistere un modello di "perfetta femminista" secondo codici di comportamento e di pensiero definiti da qualcuna,  e considerati universali, eppure quanti ragionamenti prescrittivi si colgono nelle parole di molte donne, e perfino di qualche uomo "maestro" per essenza.
D'altra parte avallare tutti i comportamenti come legittimati da una scelta soggettiva rischia di mettere in ombra la questione della coscienza di..... (mi mancano  le' espressioni adeguate, perché "di genere", "di sesso" non mi sembrano esaurienti) e quindi  mi sembra annulli ogni possibilità di analisi.

sabato 6 aprile 2013

Altra interessante definizione a proposito del mito dell'identità, "stucchevoli malinconie identitarie".
Espressione che ricorre nella presentazione di un ciclo di seminari, intitolato Da Marx all'operaismo, sul sito www.uninomade.org

giovedì 4 aprile 2013


Condivido quello che dici su Lisistrata, l'eroina della commedia di Aristofane in una lettura moderna può essere reinterpretata come protofemminista. Ma Aristofane non potrebbe essere più lontano da simili prospettive. E non perché invece è maschilista (e neanche perché, più verosimilmente, fosse misogino, che in certi casi è pure da capire) ma perché al contrario è portatore assolutamente organico del patriarcato: che proietta fino a noi la codificazione irrigidita dei ruoli tra maschio e femmina, cosa che a sua volta genera i fondamentalismi (il possesso e la violenza legalizzati sul corpo delle donne) e in tempi favorevoli genera l'emancipazionismo che di per sé non modifica la sostanza del patriarcato, anzi lo rinforza, come la liberazione degli schiavi neri rinforza il sistema della fabbrica industriale.
Insomma nel quinto secolo a.c. (Lisistrata viene rappresentata per la prima volta nel 411, duemilaquattrocento anni fa!) il patriarcato è già al suo top nella società greca tanto che un  sistema culturale che lo riflette può esprimersi al massimo grado nel teatro. Insomma lì nella commedia di Aristofane i ruoli sono così vivi che ormai nessuno mette in dubbio che siano 'naturali', nessuno sa più che sono nati da una ipotesi di lavoro resa necessaria per la sopravvivenza di un ordine sociale. Così l'uomo è in sostanza un guerriero e la donna è una casalinga che ama i buoni sentimenti e la pace.
Lisistrata occupa l'acropoli con le donne ateniesi e spartane e le invita a sacrificare il proprio desiderio sessuale sottraendosi all'intimità con i propri uomini: costoro per riottenerla saranno più disposti a concedere quanto sta a cuore a Lisistrata, cioè la dichiarazione di pace tra ateniesi e spartani (siamo in piena guerra del Peloponneso). Già per se stessa l’idea della donna portatrice irenica di pace e dolcezza è una delle mitizzazioni maschili più note. Ma mi interessa rilevare altro nella commedia.
L’iniziativa femminile, che può essere scambiata per femminismo, è qui certamente assunzione consapevole di una soggettività anche forte, ma tutta interna al patriarcato.
Una soggettività che fa anche vincere qualche battaglia nella storia del rapporto tra i sessi.
A guidare la commedia sulla scena del teatro è un uomo col suo immaginario erotico prettamente maschile. Dal quale si deduce appunto l'organicità al patriarcato di Aristofane.
Anzitutto suggerisce che, prima che altrove, lo stimolo sessuale non può che trovare appagamento dentro la vagina. Almeno ufficialmente. Altre vie non sono dignitose, anche se poi, per non scontentare nessuno, Aristofane mette in bocca a Lisistrata l’invito ai maschi di servirsi all’occorrenza delle mani! Ma, e questo è ancor più significativo, Lisistrata appare convinta che in generale anche le donne concentrino esclusivamente il proprio piacere sessuale nella stimolazione della vagina: quando proprio non ce la faranno più le sue compagne nella lotta impegnate nell’astinenza potranno servirsi per consolarsi di uno di quei falli di cuoio che artigiani di Mileto hanno messo sul mercato!
Ma non basta. In una delle scene finali gli uomini si presentano alle trattative pubbliche con le donne con i falli in erezione per dimostrare che il loro appetito sessuale senza le donne non poteva essere soddisfatto. E questo non può che creare rischi per l’ordine familiare e sociale di cui la donna, con il suo lavoro di ‘cura’ domestico e ad personam è altamente responsabile. Di fronte alle donne e agli altri maschi presenti nella stessa scena e davanti al pubblico in platea, l'uomo vero non può che avere nel suo fallo desiderante la vagina l’argomento più convincente.
Ma non basta ancora. Nella commedia si dice delle donne che vestono baby doll, hanno una quantità incredibile di scarpe, si truccano e profumano e amano l'uomo profumato e coi peli nel didietro: Aristofane quasi senza accorgersene sollecita all'accettazione di un immaginario erotico che anzitutto è maschile e non femminile e lo spaccia per naturale e al quale come tale la donna deve uniformarsi. Lisistrata è una donna messa in scena da un maschio, portatore di un patriarcato mite, non fondamentalista. Un patriarcato non fondamentalista ma sempre ordine 'naturale' del mondo.
Qualche giorno fa c'è stata la sciagurata scelta di Napolitano di escludere donne dal - comunque screditato- gruppo di saggi, scelta che illumina sul maschilismo esistente, anche in uomini non dichiaratamente misogini; maschilismo fondato sulla cultura patriarcale, che assegna funzioni e sfere di attività  differenti per uomini e donne. Cultura della quale sono imbevute anche le religioni che conosciamo, basti pensare alle recenti dichiarazioni di papa Francesco, presentate come riconoscimento del "valore femminile", valore mai negato dalla chiesa nei confronti delle donne che si attengono ai compiti loro assegnati, di sostegno, assistenza, testimonianza, cura degli uomini, in una prospettiva di complementarietà.

Di fronte alle sdegno sollevato dall'iniziativa del Quirinale, si è sentita qualche voce di donna che ha invitato a fare come Lisistrata,  l'eroina di Aristofane, passata alla storia letteraria, e non solo, come  la donna che si è ribellata alla subordinazione delle donne. Ma Lisistrata è una figura che  non esce dall'identità femminile tradizionale, appartiene a una dimensione emancipazionista più che  femminista.

lunedì 1 aprile 2013

Io invece avevo di Jannacci un'immagine di "comicità", nelle sue canzoni, di "sberleffo", come ti dicevo ieri nei confronti dei seriosi, non solo dei potenti di turno, ma anche dei cant'autori suoi contemporanei, un po' tragici, cupi a volte.
Mi sollevavano l'umore le sue canzoni,  era possibile essere bravi senza essere per forza "impegnati" a criticare ogni forma di apparente superficialità, sempre pensierosi e pronti a sollevare il sopracciglio biasimante.
Una giornalista inglese, Laurie Penny, in un suo articolo osserva come lo stereotipo del femminismo sia fortemente osteggiato da uomini e donne, per la paura della perdita dell'identità femminile. La casella che imprigiona.
Molto rassicurante la richiesta di parità, come inclusione, condivisione di incarichi e responsabilità a tutti i livelli, basta che non si intacchi il cuore del problema, le identità di genere
Mi chiedo quanto sia facile condannare in astratto la propria identità di genere, ma quanto sia difficile rinunciarvi nella pratica

sabato 30 marzo 2013

Il flauto che accompagna.
"Non c'è arte senza visionarietà, rovesciamento di logiche consolidate, sberleffo verso il potere, pietas, gusto per l'improbabile e l'impossibile."
Lo dici riferendoti a Enzo Iannacci, deceduto ieri l'altro, malato da tempo, aveva 78 anni. Ha accompagnato la mia adolescenza, le sue canzoni sono state una delle colonne sonore della mia milanesità. D'accordo ci sono stati anche il rock, il blues, il jazz, nelle loro versioni anglosassoni e anche in quelle nostrane. A parte che nella musica e nelle storie di Iannacci c'era un po' di tutto questo. E del resto rock, jazz, ecc hanno nel loro dna le storie di emarginati, disperati, sfruttati. Ma nel caso di Iannacci non si trattava solo di questo. I suoi personaggi e la sua musica rimandano spesso a un mondo fuori posto, sotterraneo. Penso alla storia di prete Liprando, che fu per me diciottenne un tuffo nella storia, nella satira, nell'allegria. Ma in quella messa in scena fantasmagorica che è il giudizio di Dio a cui il prete viene sottoposto c'è molto altro. Anzitutto una vena letteraria laica che nella Milano di fine anni cinquanta suonava come una chiamata a farsi coraggio nel momento periclitante della mia già debolissima fede, ancora qualche passo e il mio ateismo si sarebbe organizzato al meglio, dandomi identità. Poi il coro. Nell'esecuzione del pezzo, introdotto da un cambio di voce in falsetto, viene introdotto un brianzolo curioso che è venuto addirittura da Como e che nel bailamme della folla attratta dallo spettacolo gratuito non riesce a vedere niente. Una situazione comica ma lui non ha proprio l'aria di uno che si diverte. Per venire da Como 'sin qui' deve essersi dato la briga di ascoltare notizie rumorose di cose straordinarie che si stavano verificando a Milano, un prete che metteva in discussione la potenza dell'arcivescovo della grande città! Un prete che affronterà il giudizio di Dio apposta per snudarlo e comprometterlo agli occhi dei fedeli. Già non è stato facile fare il viaggio di andata, ora toccherà anche tornare indietro senza aver visto niente. Il lombardo curioso deve essersene tornato triste e sconsolato, con l'aria di quello che nella vita non è mai al posto giusto. Ma senza rassegnazione. Gli eroi di Iannacci possono essere tristi ma mai rassegnati, mai pacificati, mai sconfitti, Spesso 'incazzati'. Difficile che quegli eroi dalla retroguardia della vita cui sembrano destinati possano raggiungere la testa, tuttavia chi non si sente mai al posto giusto nella vita non è detto che resti sempre indietro, talvolta te lo ritrovi poi in avanguardia. Perché lo spirito che anima quegli eroi di pochi mezzi è la volontà mai dismessa di provarci, anche a costo di sbatterci il muso, magari per vie straordinarie e irridenti le convenzioni. Una lezione di vita che aiutava a trovarsi.
Ma non è sempre così nell'arte? Non è forse con quel suo collocarsi 'fuori posto' che l'arte alimenta il riconoscimento identitario? In modo misterioso l'arte, la poesia stessa, offrono chances, occasioni, al proprio riconoscimento. Difficile però che alimenti miti identitari. Soprattutto la poesia. Nel caso della musica di Iannacci c'era un altro aspetto in gioco ed era la lingua usata, il dialetto milanese cui la voce aggiungeva espressività stralunate. Chi come me arrivava a Milano, nella città italiana più industrializzata ed europea, negli anni cinquanta, veniva accolto con quella musica e quella voce di suoni, cadenze e timbro ostici che ti costringeva a prendere la tua parte, a schierarti, a dire la tua.

mercoledì 27 marzo 2013


Non so bene, ma mi pare che negli ultimi tempi si siano moltiplicati comportamenti dettati da istanze identitarie, collettive e individuali. 
Ho sperimentato aggressività inattese, a difesa di chi si è sentita minacciata da semplici osservazioni, assisto quotidianamente a chiusure in un noi che esclude chiunque  non sia del gruppo, più o meno ristretto.
Mi sembrano tutti effetti del mito identitario, tanto più invocato quanto più aumenta l'insicurezza e il senso di impotenza.
Le persone soggiogate da questo mito possono essere definite i nudi e puri, che  perseguono l'obiettivo della coerenza con le proprie idee fino in fondo e a qualsiasi prezzo, fino al sacrificio di se stessi, e di altri.
Andranno sempre fieri di questo, che diventerà titolo di merito agli occhi propri e altrui. 
Vittime delle tacite crudeltà di un'identità coerente, per parafrasare la Butler.
Peccato che al mondo tutto nasce da miscugli (la vita stessa), incroci, incoerenze, in una parola impurità. 
Questo brulicame, questo brodo di coltura, sia in senso metaforico che letterale, si evolve, nel bene e nel male, dio ci guardi dalla purezza, che pietrifica e immobilizza, per paura di sporcarsi.
In fondo, per assurdo, l'azione che meglio corrisponderebbe al loro desiderio sarebbe la clonazione, che assicurerebbe  loro il massimo della purezza: da una mia cellula sviluppo un altro individuo identico a me, che sente come me, pensa come me....non mi tradirà... 
Peccato che gli individui clonati finora, nel mondo animale, non sopravvivono a lungo, sono deboli strutturalmente senza apporti esterni, c'è bisogno di meticciato, individualmente e socialmente.
Effetto dell'aspirazione alla purezza di pensieri e azioni è sovente il sentimento di superiorità morale nei confronti degli altri, che non si uniformano a questo dettato, la presa di distanza e una forma esibita o celata di disprezzo verso chi è considerato troppo debole, privo di rigore morale, spaventato dai sacrifici che una dimensione del genre necessariamente impone in una dimensione collettiva costituita da interessi contrapposti, conflittualità, egoismi  e generosità da contenere, visioni differenti e distanti tra loro del mondo e delel relazioni con persone, animali e cose.
Di qui lo slittamento progressivo verso chiusure in piccoli (o grandi) gruppi omogenei, totalmente coesi, che avvertono l'esterno come minaccioso, in una parola nemico, da cui guardarsi, e se è possibile, eliminare.
La guerra, che punta all'annientamento dell'avversario, invece del sano conflitto, che non vuole distruggere, ma accordarsi.
Sarà un caso che l'accusa di incoerenza è una delle più frequenti nei confronti delle donne, mentre la coerenza è la qualità degli uomini duri e tutti di un pezzo?

venerdì 22 marzo 2013




Beh, lo sappiamo, anche perché abbiamo entrambi una formazione da storici, lo sappiamo che i tempi della storia non si adattano a quelli della cronaca... però, a proposito d'identità del tuo post precedente, vorrei dirti: il poeta è sempre innamorato. La femminista?

mercoledì 20 marzo 2013

Negli ultimi tempi ho frequentato molto più del solito i social network.

Accanto ai numerosi vantaggi: la possibilità di informazione, scambio e confronto con molt*, la conoscenza di fatti, eventi e   notizie non rintracciabili sugli altri mezzi di informazione, la possibilità di mantenere dialoghi quasi in tempo reale con molte persone, ho notato il riproporsi, spesso inconsapevole, dei meccanismi identitari.

Mi ha colpito l’aggressività, la difesa rispetto all’insinuazione di un dubbio, che le mie parole suggerivano, la reazione violenta.

Dopo un attimo di sorpresa, mi sono resa conto che avevo a che fare con una fragilità mascherata da arroganza.

Quello che più sconcerta è che la vulnerabilità (della quale soffriamo tutt* a vari livelli e gradi per la  nostra stessa condizione di uman*) invece di comportare un momento di attenzione e compassione (nel senso etimologico del "patire insieme") a volte scatena reazioni di scomposta aggressività, così come, a un livello drammatico,  scatena guerre tra popoli.

Anche individualmente abbiamo introiettato comportamenti che agiamo anche senza che nessuno ce li imponga.

Ci comportiamo come i poveri polli di Renzo e così facendo, senza magari accorgercene, aggiungiamo un filo di infelicità alla vita nostra e degli/delle altr*.

Eppure molt* di noi ricordano le critiche e soprattutto i pericoli derivati da identità assunte come immutabili, fissanti come gli spilli che inchiodano le farfalle agli albi degli entomologhi, e con fatica siamo riuscite a metterle a tema e a governarle.

In questa dimensione è stata fondamentale l’esperienza del neo-femminismo.

Alla fine degli anni Sessanta, quando si formarono  in Italia i primi gruppi, i temi relativi alle identità (in prima istanza femminile) furono indagati, scomposti nei loro tratti essenziali, confrontati, disordinati, parallelamente a quanto le ricerche filosofiche e psicoanalitiche facevano nei propri ambiti disciplinari. 

L'obiettivo delle ricerche teoriche e delle pratiche politiche di molte donne era quello di destrutturare l'identità femminile tradizionale, analizzando i modelli sociali e culturali nei quali era stata tradizionalmente inscritta e criticandone la naturalizzazione. 

Negli anni Ottanta si verificò un cambiamento semantico, si preferì parlare di soggettività, la parola soggettività pone l'accento sul soggetto dei processi di individuazione, e quindi sulla differenze tra i vari soggetti, mentre il termine identità richiama in primo luogo il concetto di appartenenza -a un genere, una classe, un sesso, una collettività, una etnia, una lingua, un gruppo politico, una squadra, un esercito, una religione .....- insomma a un gruppo sociale omogeneo per certi tratti, individuati e promossi a elementi  determinanti l'inclusione o l'esclusione di altri/e che non condividono quei tratti.

Di qui la logica della contrapposizione noi/voi (loro), con le distorsioni in amico/nemico, buono/cattivo, e tutte le contrapposizioni escludenti che abbiamo sentito nella nostra vita.

Ora se è innegabile che  ci sono tratti comuni e differenze tra persone, è anche vero che ciascun* di noi appartiene durante la propria esistenza a un numero indefinibile di gruppi omogenei, e si comporta conseguentemente secondo la propria sensibilità e coscienza nelle scelte da compiere quando viene chiamata in causa una specifica appartenenza identitaria.

Eppure nello scorcio del secolo scorso e in questo primo decennio del nuovo abbiamo assistito a un riemergere spesso violento di logiche identitarie, a causa dei rivolgimenti sociali -migrazioni da paesi impoveriti a paesi arricchiti-, degenerazione  delle pratiche democratiche nei vari Stati, processi di impoverimento collettivo e arricchimento di pochi.

Quando ci si sente fragili, esposti a aggressioni di varia natura sempre in agguato, l'identità collettiva fa sentire meno sol*, assicura una solidarietà tra i e le componenti il gruppo di riferimento e fa sperare in una difesa collettiva. 

La contrapposizione tra identità collettive differenti tra loro costituisce inoltre un'arma di distrazione di massa dai veri conflitti che potrebbero sorgere in una collettività contro i reali detentori di privilegi e poteri, è così che si può leggere il grande spazio dato dai mezzi di informazione e di intrattenimento, in primo luogo la televisione, a spettacoli che contano su questi meccanismi identitari per scatenare conflitti nei confronti di falsi obiettivi.

Il risultato è sotto gli occhi di tutt*, e la modalità di comportamento ha pervaso anche i luoghi della partecipazione politica, come se questi meccanismi identitari costituissero l'unico mezzo di relazione  e confronto tra persone e gruppi.

martedì 19 marzo 2013

Con la pressa di vivere sul collo


Certo che sono in grado di dirti come succede che a un certo punto scrivo dei versi. Non c’è niente di misterioso, se è questo che pensi. Non dico che è un lavoro come gli altri ma gli assomiglia molto. Solo che la prima cosa che devi attivare è l’attenzione a una emozione, questo non è facile non perché presenti difficoltà meccaniche ma perché se sei impegnato nella tua vita quotidiana di lavoro, impegni familiari e di relazione non ti viene spontaneo dare attenzione a quelle emozioni. Non sono mediamente riconosciute produttive, in quelle condizioni l’unica emozione sempre allerta e che non puoi ignorare, per me e credo per la maggior parte degli uomini, è l’attrazione sessuale. Più sei impegnato nel lavoro più è difficile ignorare l’oggetto del tuo desiderio se ti passa accanto profumato e scollato (nel senso proprio che non fa niente se si tratta di una persona che non stimi se è però sexy!). Ma a tutte le altre emozioni si lascia uno spazio minimo, perlopiù segreto, intimo e quasi vergognoso. Il poeta è abituato a stare allerta su di quelle, certo lui ci si è educato ma perlopiù si tratta di una disposizione dell’animo alla quale lui ha scelto di lasciare tempo e luogo per manifestarsi, insomma non ci ha rinunciato mai, anche se poi maschera questa condizione e sopporta la necessità di nasconderla sotto traccia.

Del resto riportare in qualche modo l’emozione in versi scritti è anche il modo di liberarsene e dominarla, solo che questa liberazione perché sia totale deve essere comunicata ad altri, se no non funziona.
Ma prima c’è l’emozione, poi su di essa si innesta di solito una riflessione.

Ieri quei versi che ti ho mandato sono nati dall’emozione di aver risentito per l’ennesima volta nel corpo il brivido della primavera. Li ho scritti e sono lì bisognosi di aiuto perché la prima stesura non è mai l’ultima, anzi. Ci tornerò con pazienza, finché saranno a mio parere degni di essere condivisi. Anche perché non c’è nulla di più pericoloso della primavera per un poeta. I poeti ne parlano da tremila anni, da quando conosciamo, almeno nel mediterraneo, la scrittura. Per cui essere banali è il primo rischio. Anche perché molto verosimilmente l’emozione è sempre simile a se stessa, almeno in questo caso.
Il risorgere della primavera, tanto per cominciare, è legato di solito all’infanzia, e per forza, si tratta di nascita e rinascita. A me istantaneamente, appena raccolto nell’aria quel brivido, sono venuti in mente i miei sei, sette anni, un’età lontanissima e in un luogo altrettanto lontano da qui. Dove c’era il mare. E questo è già l’altro rischio, parlare del mare. In un’epoca in cui sono tanti (tante) che sostengono che tutto è già stato detto. Vero, ma il limite è del pianeta, mica nostro, il mare c’è e continua a esserci, e ci siamo ancora noi che diciamo mare in un modo sempre diverso. Il problema appunto è nominarlo in modo diverso.

Primavera, mare.
Non puoi sbrodolare e devi dire i colori, delle strade degli alberi delle case. Gli odori, la temperatura, e i rumori del mare sotto gli scogli fino al cielo, alberi nebulosi di prima mattina, odori tenuissimi, di camomilla nei campi, delle fiorescenze sugli alberi da frutto, e poi il tepore che ti arriva a brani mescolato all’afrore del mare freschissimo di uova marce. E il riconoscimento del corpo nato e di nuovo nascente, il suo odore chimico, la consistenza delle mani, il liquore degli occhi, la sonorità della voce, l’umidità della pelle. Uovo deposto. Le galline per la strada sterrata dove vivevo. Il salnitro sui muri, la risacca che esibisce alghe e muffe, la pioggia fitta e silenziosa.
Ma basta, basta.
Perché poi l’altra difficoltà è innescare la riflessione su questo materiale. Evitare anche qui la banalità. Perciò stai tranquilla, non pensare che io pensi sulla morte. Prima che nascessi c’era il nulla. Tornerà ad essere nulla tutto ciò.
Ultima nota: l’importante in poesia è dire velocemente, e devi stare sempre in piedi mai seduto, con la pressa di vivere sul collo.