Il presente porta visibilmente con sé, nei nostri corpi, tutta la nostra storia, pretende un'attenzione che ci lega oltre il privato, oltre l'individualità, oltre l'identità, senza le quali tuttavia la vita non avrebbe senso per il futuro, non ne avrebbe avuto mai nel passato.
Adriana Perrotta, Paolo Rabissi

lunedì 21 luglio 2014

Se mi si dice libro anch'io capisco libro e non capitolo

Se mi si dice libro anch’io capisco libro e non capitolo. Per cui verrebbe da dire che in definitiva è stata tua nuora (anche mia) a essere metonimica. In questo caso sembra aver usato una sineddoche (più nota forse all’inverso nell’uso di espressioni in cui una parte viene nominata al posto dell’intero) che è considerata molto prossima alla metonimia. Il che confermerebbe quanto dici a proposito dell’appartenenza di genere del linguaggio metonimico. Ma per l’appunto la faccenda non regge e semmai quel linguaggio è da ascrivere non a una ‘lingua delle donne’ ma più in generale a tutti i gruppi sociali subalterni, deprivati culturalmente e socialmente.  Cioè a chi, di fronte alle istituzioni pubbliche (e ai potenti) si sente in minoranza e imbarazzato per via della mancanza sia di proprietà linguistica sia di articolazione retorica, che appartengono a chi ha studiato, letto e scritto. Mi viene in mente la novella di Simona e Pasquino di Boccaccio che tu ricorderai senz’altro (anche perché fosti tu a indicarmela come lettura importante per i nostri allievi!). Lì le cose sono chiare al di là delle intenzioni dell’autore. Simona, affranta e in lacrime per la morte del suo amante non è capace di spiegare con le sue parole di popolana commossa e ignorante la morte di Pasquino per la quale è fortemente sospettata. Il giudice, a causa del fatto che non riesce a comprendere la spiegazione di Simona, decide di riportarla davanti al cadavere e lì le chiede di spiegarsi meglio: Simona rinuncia alle parole e adopera i gesti, si passa fra i denti delle foglie di salvia così come aveva fatto Pasquino prima di morire. Il dramma così giunge al suo apice. La salvia, resa velenosa da un rospo che aveva fatto tana nel cespuglio, uccide anche Simona, popolana senza parole bastanti. Tanto per restare in tema di figure retoriche, la novella puoi prenderla come ‘antitesi’ al tuo dilemma ‘metafora o metonimia’. Perché mettere in discussione una questione simile tutto significa tranne che essere incolte e prive di parole come Simona. E allora la questione torna all’inizio:  perché l’uso della parola ‘libro’ al posto di capitolo? E poi: perché così tanto rispetto per la lettera del mandato? Perché T. adopera una sineddoche invece della parola precisa, tanto più necessaria quando si danno istruzioni? E perché tu non hai colto il senso metaforico o metonimico che fosse, direi quasi ignorandolo piuttosto che correre il rischio di non rispettare l’istruzione? Io penso che l’una e l’altra cosa dipendano dall’intreccio, poco districabile forse, del vostro amore verso il libro da una parte e da una certa vostra condizione paritaria di intellettuali. Quale appello istruttivo di maggiore efficacia, e nello stesso tempo di rispetto per come sei, poteva trovare T. che richiamasse la tua attenzione, conoscendo lei la tua profonda passione per il ‘libro’, passione dalla quale lei stessa è coinvolta? E quale migliore risposta da parte tua se non quella di rispettare appieno la nominazione di ‘libro’, costasse anche sedici capitoli? Quando dopo più d’un’ora che leggevi sono entrato a dirti che mi sembrava che tirassi troppo per le lunghe i rituali dell’addormentamento mi hai risposto sicura: beh, sono solo al primo libro!

domenica 20 luglio 2014

Metafora o metonimia?

Mia nuora mi ha affidato qualche sera fa il compito di mettere a dormire la mia nipotina di quasi tre anni, mi ha avvertito di leggerle due libri e poi lasciarla previo bacino e promessa di eventi piacevoli il giorno seguente. Questa è la prassi da lei adottata quando accompagna a letto la piccola, il che accade più raramente rispetto al papà, che non indugia in letture, riducendo il rito a pochi minuti di coccole.
E per questo la mette a letto lui abitualmente.
Io diligentemente le ho letto  il primo libro, e poi il secondo -breve- di ninne-nanne, ma la lettura del primo è durata un'ora. Vedevo che nel frattempo le si chiudevano gli occhi, ma appena abbassavo il tono della voce le si spalancavano di nuovo, e lei mi fissava con l' intenzione di controllare quello che stavo facendo.
Alla fine bacino e promessa di un lungo bagno nel mare insieme il giorno dopo.
Quando ho raccontato l'episodio, risata generale, a partire da mio marito, che già si era stupito della lunghezza della lettura da me effettuata e sosteneva che avevo frainteso la consegna.
In effetti il libro in questione era suddiviso in storie illustrate, che si succedevano come capitoli, con gli stessi personaggi.
Mia nuora intendeva dire che dovevo leggere una o due storie, e semmai contrattarne una terza, e poi il libro delle ninne-nanne, a conclusione.
La risata generale con la quale è stata accolta la mia perfomance mi ha suggerito una risposta sintetica: io sono metonimica, poco metaforica, se mi si dice un libro io intendo il libro nel suo complesso, altrimenti mi si deve dire capitoli, episodi, racconti....
Al di là dell'aneddoto mi sono tornate in mente le indagini sociolinguistiche degli anni Sessanta, svolte in area prevalentemente anglofona, che ritenevano di aver individuato una "lingua delle donne" in un insieme di espressioni e intonazioni che avevano a che fare con un'abbondanza di formule di cortesia, con la preferenza verso  la domanda invece dell'affermazione, o nel caso di una necessaria affermazione con l'uso contestuale di formule attenuative,  con il ricorso frequente alla seconda o terza persona invece che alla prima...e via dicendo. Salvo poi accorgersi e convenire sul fatto che queste strategie comunicative sono comuni a tutti/e  gli/le appartenenti a gruppi sociali subalterni, deprivati culturalmente e socialmente, indipendentemente dal sesso, specie in interazione con appartenenti ai gruppi dominanti.
Lungi quindi da me l'idea di un comportamento ascrivibile a una presunta "lingua delle donne", tuttavia certi tratti distintivi di questa fantasmatica lingua mi sono propri.

mercoledì 4 giugno 2014

Libere dai dolori del parto, libere/i dalla fatica di guadagnarsi il pane.


Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli...il tuo istinto ti spingerà verso il tuo uomo, ma egli ti dominerà!'.[...] Con il sudore del tuo volto mangerai il pane,  finché non ritornerai alla terra"



Così circa due o tre
 " mila anni fa uomini dell'area mediterranea (non so se ci siano state donne tra le redattrici dei libri dei quali si compone la Bibbia), in prevalenza agricoltori e pastori, diedero senso al loro travaglio di vivere, immaginando la condanna divina causata dalla disubbidienza dei progenitori.


Indipendentemente dal fatto di credere o meno nelle religioni che riconoscono alla Bibbia la funzione  fondante, indipendentemente dai successivi apporti delle popolazioni che hanno abitato e arricchito culturalmente il mediterraneo e l'occidente, le immagini per le donne dei dolori del parto e della subordinazione all'uomo, e per gli uomini della fatica di  procurare i mezzi di sussistenza, con le conseguenti funzioni di protezione e difesa, ci hanno accompagnato fin dalla nascita.

In fondo il progresso tecnologico mondiale può essere letto anche come tentativo di alleviare la fatica del produrre, è stata trascurata invece la sofferenza del partorire, è recente la pubblicizzazione delle tecniche per il parto indolore, ancora osteggiato in certi ambienti.

Le tecnologie della produzione, agricola e industriale, sono state sempre presentate alle masse come vittorie sulla fatica, sugli ostacoli naturali, sui mali che affliggono l'umanità, celando a parole gli interessi di arricchimento personale e di comando su persone, cose e animali. 

L'automazione delle fabbriche è realtà dalla seconda metà del secolo scorso, non ha comportato l'eliminazione dello sfruttamento, anzi ha dislocato nel mondo i vari carichi di  lavoro, ha spostato i rischi maggiori nelle zone del pianeta impoverite, quindi più ricattabili.
Una ditta americana ha in prova dei droni per consegnare sempre più velocemente le merci ordinate; accanto a questa notizia è riportata una ricerca inglese che  prevede entro vent'anni la sparizione di lavori dequalificati, quali contabile, magazziniere,  addetto ai call center e dattilografe, tutte figure professionali che saranno sostituite da automi..


Oggi ci troviamo nel nostro mondo occidentale di fronte a una quantità di tempo lavoro liberato, si potrebbe  pensare di sostituire i mestieri e le professioni rese obsolete dall'impiego della tecnologia con altre attività, considerate a tutti gli effetti lavori, di attenzione e presa in carico delle persone, della loro vita, degli ambienti nei quali viviamo, e via via allargando sempre più il cerchio, alle zone vicine e progressivamente alle zone più lontane.
Ognuno/a impiegherebbe energie, creatività, impegno nelle attività più congeniali, così come finora è stato auspicabile  per le vecchie professioni.
Qualche cosa c'è già, penso ai GAS, alle banche del tempo, ai vari livelli di volontariato, che dovrebbero però essere considerate lavoro a tutti gli effetti, e non solo manifestazioni di altruismo e generosità individuali.


Sembra fantascienza, o velleitarismo, in un sistema ancora basato sull'accumulazione di ricchezze e sullo sfruttamento di persone, animali, risorse naturali, da parte di "pochi" privilegiati a livello mondiale, ma ben altri cambiamenti si sono avuti nel corso della storia, chissà, forse oggi siamo più vicini di quanto pensiamo.
Bisogna cominciare a raffigurarsi i modi, a organizzarsi almeno mentalmente in questo senso.

martedì 29 aprile 2014

Le cicogne di Micene



...hai ragione a dire che è presto per dire la fine del patriarcato. Però è cominciata da tempo. Per noi Occidentali dal giorno in cui Agamennone sacrificò Ifigenia e Clitennestra uccise Agamennone e Oreste uccise Clitennestra e poi lui ne fu perseguitato dalle erinni... Ma l'agonia sarà ancora lunga. Del resto quanto tempo gli ci volle per diventare la nostra cultura? Diecimila anni, ventimila, centomila?

Le cicogne di Micene 
(lettera in ricordo all'amica di viaggio).

Non era l'alba dei sogni né il tramonto delle idee
quel nostro varcare la porta dei leoni 
incastonati nelle pietre di Micene,
aprivano per noi un varco nel tempo,
e a tetti e pareti mancanti
ci accolse odore di fieno e di morte
come se gocce di sangue, ferite aperte,
scintillassero ancora tra basamenti intatti.
Il sentiero ci conduceva a voci sopite,
io a lei tu a lui la mano, per quei tremila anni
come un battito di ciglia, la tracotanza di Agamennone, 
il rancore di Clitennestra.

Dicevamo di quegli scenari consueti,
di maschi guerrieri inventori di ruoli e tradizioni 
per la propria egemonia di vendicatrici private
mai libere a mimarne gesta  e pensieri,
come fosse un destino più forte persino degli dei
che hanno abitato alberi, statue e ginestre
di questo paese.
No, nessun destino. 
E' volere arcaico, ordine patriarcale, 
che intreccia passioni e divino,
che ci vorrebbe eredi per sempre di maschere d'oro,
tombe ciclopiche, armature ammaccate.

Ci teniamo noi a passioni pazienti 
di lumi e non di incendi. La tua mano a lui la mia a lei
voltiamo le spalle a Micene, abbiamo un patto nuovo
alla fine del sentiero, dividere tra tutt*
il tempo di cura dell'aria, dell'acqua, della terra. 
Finché il pianeta ci tenga.
Per ora contentiamoci di un the in questo bar
fuori mano. Le cicogne su quel palo hanno l'aria
di mandare segnali. L'una si stacca in volo e torna,
l'altra l'accoglie col battito sonoro del becco, un applauso.
Ci chiediamo chi sia il maschio e chi la femmina.
Le abbiamo lasciate al loro destino.

                                              *******



Sulla salute attuale del patriarcato

Da più parti sento affermare che il patriarcato è "in dissoluzione", se non addirittura morto e sepolto.
Io confesso di sentire un certo disagio di fronte a queste affermazioni, perché continuo, nelle mie riflessioni, a tenere lo sguardo fisso proprio sull'intreccio sistema capitalistico (sociale) e patriarcato (simbolico) come due catene che a gradi e diversi livelli di pressione/oppressione in tutto il mondo, tengono inchiodati/e donne e uomini a vite dolorose  e insopportabili, tutte le dichiarazioni di morte del patriarcato mi fanno sentire come  la combattente di una battaglia di retroguardia, come una ultima giapponese nella foresta tropicale, che non si accorge che lo scenario in cui vive è grandemente mutato.
Io credo che questo dipenda da che cosa si intende con il termine patriarcato: se si vuol dire che si sono rotti gli universi simbolici sui quali si basava, la cosa è ovvia, almeno nella nostra cultura occidentale, da circa quarant'anni a livello di massa, e prima  solo a livello individuale - donne e uomini che hanno messo in crisi quel paradigma nel corso di secoli-. 
Ma se si esce dalla dimensione di considerarlo un potere assoluto e impenetrabile, se non lo vede come un monolite, ma si riflette sulle sua capacità di adeguarsi ai mutamenti sociali di superficie, sulle sue tecniche di penetrazione e conquista di cuore e menti, sui suoi modelli di organizzazione sociale, culturale, politica scientifica via via aggiornati e proposti... Se si fa attenzione ai linguaggi, sia specialistici  che colloquiali familiari che hanno permeato, allora si vede che è vivo e vegeto nelle menti e nelle coscienze di molte e molti, qui da noi e nel resto del mondo, con il quale siamo in stretta relazione. Per queste ragioni è  accettato e riprodotto da noi inconsapevolmente nelle nostre stesse relazioni sociali. 
Più di trent'anni fa alcune donne dei Centri  italiani, sulla scorta di quanto avveniva in altre zone d'Europa e d'America (anche del centro-sud) avviarono la riflessione sul sessismo linguistico e sulle sue conseguenze nella costruzione identitaria di donne e uomini, denunciando il ruolo della formazione di soggettività che una lingua androcentrica -patriarcale- ricopre nella formazione di soggettività nella comunità dei/delle parlanti, con le metafore e gli stereotipi che assorbiti fina dalla nascita vengono considerati "naturali" e non "storicamente determinati". Questo  discorso, articolato in testi, seminari, convegni che prendevano in considerazione  molti settori della comunicazione formale e informale, venne irriso, e osteggiato anche da molte donne del movimento come irrilevante. 
Oggi per fortuna è cambiata la mentalità, ma ho portato questo esempio proprio per attirare l'attenzione sugli aspetti di manipolazione da parte del sistema patriarcale, e sul pericolo di sottovalutare la sua disseminazione nelle coscienze. In fondo la stessa cosa si può dire del sistema capitalistico, già in crisi in tutto il mondo, attaccato  anche nei suoi stessi fortini, criticato da tutti, non a caso strettamente intrecciato con il sistema patriarcale, ma mi guarderei bene dal dire che è in dissoluzione.

martedì 11 marzo 2014

Prozac e quote rosa


Le quote rosa sono il prozac per una società sessista, tacitano il sintomo, senza incidere minimamente sulla malattia (disagio, sofferenza, sessismo....). 

Finalmente si è fatta chiarezza con le votazioni tenutesi in Parlamento il 9 marzo, che hanno bocciato tre emendamenti presentati per modificare in senso paritario la presenza degli uomini e delle donne nella prossima legislatura.
Con il voto segreto  la comunità degli uomini, nel suo complesso, aiutata da qualche donna cooptata e fedele, indipendentemente da orientamenti politici, ha mostrato  che non vuole condividere il potere di comando con le donne. 
Questo non vale per tutti gli uomini, ma per la maggioranza. 
Quindi è inutile affidare le speranze di raddrizzare un ordine sociale sbagliato (patriarcato) a meccanismi e regole di funzionamento, occorre indagare a fondo nella relazione donne uomini per andare a scovare l'origine di questo male. 
Il femminismo lo fa da quarant'anni, e alcune donne isolate avevano cominciato anche prima.
Detto questo, mi sembra incontrovertibile che le votazioni in Parlamento abbiano riguardato in realtà problemi interni a partiti, e problemi fra partiti. 
Si è consumata l'ennesima strumentalizzazione di una "questione femminile" (intesa come problema di donne, invece che questione generale di democrazia) per motivi e obiettivi di opportunità politica, da una parte c'era chi pensava di affossare il patto Renzi-Berlusconi con questo pretesto, dall'altra chi, temendo questo, ha sacrificato una conclamata adesione alla parità di genere per mantenere il patto scellerato.
Non è che gli uomini non vogliano donne in Parlamento, solo vogliono nominarle loro, per mantenerne il controllo; vanno bene donne che condividono l'idea della "naturale" divisine del lavoro, stabilita dall'ordine patriarcale, e/o quelle che resteranno fedeli ai ai capi che le hanno cooptate e alle loro future decisioni, senza ribellarsi e avanzare pretese di uguaglianza; donne propense a adottare la dimensione della complementarità, piuttosto che il conflitto.
Non si spiega altrimenti il silenzio delle ministre appena nominate, in numero pari con gli uomini nel governo e mute come pesci.
Non hanno proprio niente da dire in merito?
Io sono favorevole all'ingresso di quante più donne possibili in tutti i luoghi tradizionalmente maschili, soprattutto di potere, ma dico che non basta, senza un cambiamento profondo delle coscienze e della cultura di uomini e donne e una volontà di reale trasformazione della relazione si fanno pochi passi avanti, e se mutamenti si verificano,  si tratta di mutamenti di superficie, evenemenziali.
Non sottovaluto certo l'aspetto simbolico di una parità quantitativa, ma si tratta appunto di una trasformazione superficiale, che non incide sulla natura maschilista della nostra società.
A chi parla poi di democrazia paritaria ricordo che per essere paritaria  una democrazia deve lasciare in caso di elezioni libertà di scelta a chi elegge le/i propri rappresentanti.
Con le nostre leggi attuali, il porcellum prima, e l'italicum oggi, questo non è possibile.
In mancanza della possibilità di indicare preferenze, una schiera di donne "nominate" cooptate e fedeli a chi ha il potere di nominarle non mi rappresenta neanche un po', questa non è vera democrazia paritaria.
Un' ultima osservazione, in occasione di questo episodio su face book donne pro quote e donne  contro le quote se le danno -metaforicamente- di santa ragione; vexata quaestio, da anni se ne discute, il tema della rappresentanza femminile ha monopolizzato anche gli ultimi convegni femministi di Paestum.
Quello che mi dispiace è il rancore espresso per lo più da donne pro quote, che in sporadici casi arrivano ad accusare  di complicità con il maschilismo chi tenta di esporre le ragioni per cui non si sgretola l'ordine patriarcale semplicemente inserendo più donne in un mondo regolato al maschile, e chiamandole a condividerlo, tutt'al più a modernizzarlo e trattenerlo dal baratro, prendendosene cura.
Allora il nemico diventa non più la comunità maschile, saldamente arroccata sui suoi posti di potere, ma le donne che criticano le quote, che esprimono un pensiero critico, definite a volte pseudo-femministe.
Io sostengo solo che occorre lottare non solo per una parità formale,  ma per distruggere questo ordine, le mentalità e le realtà concrete che lo sostengono.

martedì 4 marzo 2014

Lista Tsipras e patriarcato



Non ne parlano perché non sanno che pesci prendere, perché ormai sanno che introiettare nel corpo dei valori quelli che provengono dalle analisi femministe significherebbe riformulare daccapo i programmi, riformularli intrecciati non tanto con obiettivi diversi da quelli soliti, che ogni tanto in definitiva appaiono penso ad esempio alla parità di genere contentino formale ora del governo Renzi, ma intrecciati con categorie che dell'insieme darebbero una formulazione rivoluzionaria.
Non si tratta di un pacchetto di proposte da far passare conquistando la testa del corteo o il tavolo dell'assemblea, si tratta di una strategia complessiva diversa, che richiede un livello di consapevolezza nuova che non si ottiene con la lettura di un libro ma con la pratica di vita, e finché questa non si è fatta corpo vero sociale non può inverarsi in un soggetto politico tanto forte da poter fare una rivoluzione che peraltro immaginiamo del tutto atipica, perché non si tratta di conquistare il palazzo con le armi ma solo con la vita e la conoscenza. Nonostante che  i tempi continuino a essere lunghissimi, oggi tuttavia a me  sembra di poter dire che  c'è in giro una consapevolezza che cresce più del previsto, sarà per il gran lavoro culturale fatto comunque in questi decenni soprattuto da parte di donne ma anche di uomini, sarà per Internet che velocizza le coscienze. Credo che si tratti di avere più fiducia che mai nella cultura che siamo in grado di produrre nell'era che stiamo attraversando, e che conoscerà verosimilmente altri progressi, più che nella politica effettiva che deve fare i conti con le urgenze 'storiche' che in questo momento interessano più la pancia e il portafoglio di quanto non fosse negli anni sessanta quando la 'rivoluzione' partiva da dentro il benessere.
Non ne parlano perché non sanno che pesci prendere, non perché ignorano le cose. Quando era in preparazione la formazione di ALBA l'anno scorso in una delle assemblee si levò una voce assolutamente insolita, diceva che era necessario cominciare a pensare di riformulare daccapo tutti i programmi per poter inserire le questioni del lavoro sessuato ecc. Lo ascoltai con meraviglia: ma nessuno raccolse il suo intervento. Fu più tardi  uno dei promotori di allora, ora nella lista Tsipras, a dirmi: non credere che non ce ne rendiamo conto, è che nessuno saprebbe da dove cominciare.
Insomma quel segnale in assemblea fu tenue, però trovai importante che ci fosse stato e formulato da un uomo.

venerdì 28 febbraio 2014

Assemblea per la lista Tsipras

Assemblea per la lista Tsipras



Erano anni che non partecipavo ad assemblee politiche miste, tranne un paio alla CGIL qualche tempo fa, lì ma si trattava di temi specifici, non erano momenti volti alla costruzione di qualcosa in comune, donne e uomini.
Sere fa ho partecipato all'assemblea per la lista Tsipras, tenutasi qui a Milano, sono rimasta sorpresa dall'alto numero di partecipanti, quasi tutti miei e mie coetane*, o poco meno, ma c'erano anche giovani donne e giovani uomini, seppure in misura minore rispetto ai sessanta/settantenni, più qualche studente.
Alcuni interventi interessanti, molti appelli ad un'unità, che a me sono parsi un po' banali e scontati, ma si sa che in un contesto così ampio non ci si può aspettare nulla di particolarmente approfondito.
Temi accennati: lavoro, diritti, democrazia, libertà, giustizia sociale, cambiamento delle forme di produzione, lotta al neoliberalismo, all'austerity, ai populismi, ......
Nessun accenno al sistema di riproduzione che sostiene tutta la produzione di merci e beni, alla necessità di modificare la relazione uomo-donna in tutte le sue sfaccettature economiche, culturali, sociali, affettive, non so come altrimenti nominare la questione, senza ricorrere alle solite etichette (patriarcato....).
Io so per certo che alcune/i dei/delle presenti hanno ben chiari i termini del problema, so anche che la mancanza di menzione del tema nel Manifesto-programma della lista Tsipras non è dovuta a trascuratezza, ma a una scelta precisa, anche perché non appena si accenna si nota un clima di insofferenza, sia tra la maggioranza degli uomini che delle donne.
La prima reazione provata è stata quella di non scoraggiarmi e di pensare che occorre impegnarsi a porre le questioni nei vari luoghi e momenti opportuni, tuttavia riconosco che sembra sempre di andare a piatire attenzione, con il risultato che magari ti fanno parlare, ascoltandoti con sufficienza, e appena hai finito si torna alle cose importanti, e si riprendono i discorsi dopo "l'intermezzo femminista".
Ma come si fa a parlare di lavoro, di cambiamento del modo di produzione senza accennare alla questione della riproduzione nel suo complesso di lavoro e lavoro d'amore, delle persone- donne e non solo- migranti,....che svolgono questo "lavoro", pagato, non pagato, sotttopagato, attività e lavoro che che se si potessero valutare in PIL supererebbe del doppio il lavoro di produzione., con tutte le conseguenze politico-sociali che abbiamo davanti agli occhi.

E' vero che si può dire che i temi sono compresi nelle etichette i diritti, welfare, ma non è così, perché finora si sono sperimentati welfare e diritti, più o meno allargati, che non hanno minimamente scalfito la tradizionale codificazione dei ruoli imposta dal patriarcato.

Eppure questi temi non sono più trattati nelle catacombe dei movimenti, da poche femministe, ne trattano da anni economist*, politilog*, sociolog*.
A Milano poi sono numerosi i luoghi nei quali se ne parla, si avanzano proposte, luoghi sia istituzionali che di movimento.

Qual é quindi lo scoglio contro il quale si infrangono le speranze di reale cambiamento dello stato di cose presenti?
Francamente non so bene cosa pensare












lunedì 10 febbraio 2014

Le vie di fuga di Assunta e Caterina (da Siena)

Le vie di fuga di Assunta e Caterina.
Eppure non posso fare a meno di pensare che la devozione di mia nonna a Caterina la santa fosse spia di qualcosa che, sia pure in maniera sotterranea se non inconsapevole, fluiva silenziosa dentro di lei, forse la tormentava. Se la prendo alla lontana e parto dal bisogno di socialità della specie umana la figura della giovane Caterina, così apertamente esposta a quel bisogno col suo macerarsi così visibile per l'amore in Cristo e quello schierarsi amorevole e radicale per gli emarginati (che verosimilmente la metteva in dissidio con i genitori e i benpensanti borghesi della città), non funziona proprio come correlativo oggettivo di un bisogno diverso da quello che doveva trovare soddisfazione dentro la chiusa vita domestica famigliare? Che era quanto le veniva prospettato all'età di dodici anni?
C'è una simmetria tra le soluzioni di vita di Caterina e mia nonna? Non erano tanto diverse per estrazione sociale, Assunta e Caterina nascevano, a distanza di cinque secoli e mezzo l'una dall'altra, in una famiglia di piccola borghesia, l'una rurale, l'altra cittadina. Prima di quattro figli Assunta, Caterina invece addirittura la ventiquattresima figlia di un tintore e una casalinga senesi. Caterina era illetterata, a sedici anni quando entra nell'ordine della Mantellate non sa né leggere né scrivere. Poi impara e lascerà un epistolario di 380 lettere, perlopiù indirizzate come è noto ai potenti della terra. Assunta gode nell'Italia unitaria di fine Ottocento della nuova legge che impone per tutti tre anni di scuola elementare. Scriverà poche lettere ai figli e ai nipoti. Era figlia di un fattore in un piccolo borgo di case di contadini, quando l'uomo della sua vita la chiese in sposa lei rifiutò, non le piaceva, ma forse non ne voleva sapere del matrimonio, alla fine però si arrese. Non si arrese invece Caterina, quando a dodici anni pretesero di sposarla la sua opposizione fu irremovibile e sostenne una lotta che dimostrò alla lunga che era disposta a mettere in gioco la vita piuttosto che cedere. Tanto più che la sua devozione a Cristo ormai si manifestava non solo nelle opere di beneficenza e assistenza per poveri e malati ma anche nelle ricorrenti estasi mistiche, nelle visioni, nei colloqui diretti, a suo dire, con lui, (nelle stigmate, 'visibili solo a lei'). Ma soprattutto Caterina non sceglie la clausura, come avveniva frequentemente al suo tempo, tutte queste esperienze  le vive alla luce del sole: un comportamento pericoloso sia per la chiesa che per se stessa dato che l'accusa di magia, stregoneria o eresia era sempre in agguato. 
Ma non è in qualche modo lecito dire che Caterina e Assunta erano entrambe avviluppate dentro il mantello sacrale e mistico del sacrificio? Due linee di fuga equivalenti che denunciavano ciascuno a suo modo, l'una sul versante laico l'altra su quello religioso, l'intrappolamento dentro una gabbia sociale? Non erano forse entrambe additate come simbolo estremo del sacrificio? L'una col mettere tutte le proprie energie al servizio della famiglia, in un ambito dunque laico, l'altra col metterle al servizio della religione, dell'agorà cattolica e cristiana? Da ciascuna cioè secondo il proprio orizzonte più o meno vasto ma da entrambe con la piena esposizione di sé a prototipo, in modo da farsi corpo sociale l'una dell'amore familiare l'altra dell'amore per Cristo?
Entrambe facevano in fondo scandalo. L'oblatività, come dici, delle donne simili ad Assunta,  non è forse scomoda per i più (dovrei dire 'le' più!)? Non assurge forse a comportamento troppo protagonistico? Quasi una lezione pubblica radicale data al mondo, come che le viscere esposte nel lavoro domestico venissero offerte come simbolo della condizione della donna costretta, senza alcuna alternativa concreta, a sacrificare le infinite risorse creative della propria umanità dentro un ruolo unico di assistenza e cura della famiglia, quello che chiamiamo oggi lavoro riproduttivo? E non è del resto proprio questa l'accusa che cominciò a maturare negli ambienti ecclesiastici contro Caterina che, col suo dedicarsi ad oltranza alla carità in nome di Cristo e rischiando di continuo la vita nel contatto con gli appestati e mortificando la carne col digiuno e le rinunce, finiva col denunciare la corruzione e la decadenza della Chiesa?
Mia nonna trattava con sapienza la materia, cuciva e recuperava la lana, cucinava, allevava umani e bestie, faceva marmellate di prugne che mi legano la memoria. Caterina trattava con sapienza uomini e donne, religiosi e non. Caterina, che leggeva libri e scriveva lettere ai potenti, si fustigava per avvicinarsi a Cristo, Assunta, che sapeva leggere a mala pena il giornale parrocchiale e che scriveva righe emozionate in qualche breve lettera ai nipoti, non aveva tempo per una devozione, tanto meno mistica, che non fosse diretta alle fatiche quotidiane e concrete della cura domestica. Ma continuo a pensare che avessero qualcosa in comune. Chissà cosa le passava a mia nonna per la testa quando mi portava in San Domenico ed era tappa obbligata sostare davanti al tabernacolo dove tuttora è custodita la testa della santa. Ahimè, distorsioni della fede, suppongo (ma non è idolatria?). Sembrano illustrare, confermare orizzonti chiusi,  come quelli dei ruoli, dai quali uscire per una vita in equilibrio tra inclinazioni più o meno aperte verso la comunità e mezzi a disposizione, sembra davvero difficile.

venerdì 7 febbraio 2014

Lavoro d'amore, lavoro di cura e nonne

Lavoro d'amore, lavoro di cura e nonne
Pochi concetti risultano altrettanto difficili da definire a parole e anche da analizzare come quelli espressi da lavoro d'amore e lavoro di cura.
Addirittura si sta pensando di sostituire la parola cura con altre, come attenzione o piuttosto con la più esaustiva relazione.
Negli anni Settanta alcune studiose hanno adottato l'espressione riproduzione biologica e sociale per indicare il complesso di funzioni e compiti, di natura materiale, affettiva, sessuale e psicologica, assegnati alle donne dall'ordine patriarcale.
Anche se poteva apparire riduttiva, perché non chiamava in causa le implicazioni affettivo-amorose, l'espressione però riassumeva tutta una costellazione di attività richieste alle donne: dalla maternità all'allevamento e alla cura di figli e figlie, dall'accudimento degli anziani, delle anziane e delle inabilità temporanee alla doppia presenza (cioè la collocazione nell'ambito del lavoro domestico e di quello fuori casa), il tutto presentato come frutto e segno dell'amore nutrito per i propri familiari, in quanto tale motivo di soddisfazione per le donne, incuranti dei ritmi faticosi e stressanti che queste funzioni richiedono, anzi, sulla capacità di esercitarle senza farlo pesare si misurava il valore di una donna, in termini sia di stima che di autostima.
La descrizione che fai della giornata tipo di tua nonna sembra corrispondere a queste figure di donne.
Certo il tuo ricordo è quello di un bambino, che ha colto, e ricorda, l'aspetto amoroso del rapporto. 
Anche la mia nonna si alzava presto la mattina, si dedicava alla spesa e alla cucina, e che, quando i miei genitori ci affidavano a lei, anche per i mesi estivi, ci intratteneva cantandoci arie da opere e romanze,  oltre che con favole, mi sono restate impresse nella memoria La bella e la bestia e L'amore delle tre melarance. 
Il mio ricordo di lei di bambina è di una persona pienamente realizzata, anche se ho conosciuto poi dai racconti di mia madre tutte le difficoltà e le disillusioni incontrate nella sua vita di relazione con un marito sbagliato e per il quale lei era una moglie sbagliata, perché il matrimonio era stato in qualche modo imposto dalle rispettive famiglie a due persone di vent'anni, inesperte, diversissime per orientamento culturale, politico, e non so che altro.
Se confronto il mio essere nonna oggi con quello di mia nonna scorgo un abisso, l'arco di tempo è breve, solo una cinquantina d'anni, eppure il mutamento è profondo.
C'è stata di mezzo senz'altro la modernizzazione dei costumi, la rivoluzione tecnologica che ha riguardato sia la produzione che la riproduzione, la maggiore autonomia femminile in ragione della cresciuta possibilità di lavorare fuori casa, la progressiva frantumazione degli universi simbolici di riferimento, sia per gli uomini che per le donne, tutto questo ha comportato secondo me anche una frattura tra l'immagine di nonnità custodita dentro di noi, declinata in termini di amore, calore, dedizione, in una parola oblatività, e la realtà che viviamo, che non esclude quei sentimenti, tutt'altro, ma antepone la realizzazione di se stesse, pur con tutte le mediazioni necessarie in una relazione, al "sacrificio" femminile, esaltato dall'ordine patriarcale..
Io credo che anche allora ci fosse la realizzazione soggettiva come obiettivo, più o meno raggiunto, ma diverso era l'ambito delle possibilità immaginabili per la maggior parte delle donne; senz'altro io e le mie coetanee ci siamo trovate in mezzo a una trasformazione radicale, per la quale ci siamo battute e continuiamo a farlo, ma ne paghiamo il prezzo, almeno alcune di noi, oscillando tra determinazioni e sensi di colpa derivanti dalle immagini di nonnità interiorizzate nella nostra esperienza di vita.

giovedì 6 febbraio 2014

Nonne d'amore e di cure.

Nonne d'amore e di cure.

Lavoro d'amore o lavoro di cura?
Sono l'ultimo in grado di dare in proposito una definizione teorica convincente perché viene da chiedermi: dov'è la differenza? Il lavoro di cura di cui si parla, almeno quello diretto da una madre al neonato, non è per sé un atto d'amore? Se un figlio è desiderato, almeno finché manca totalmente di autonomia, cos'altro può spingere una madre a tenerlo pulito, dargli cibo, proteggerlo? Il problema se mai si sposta all'età successiva. Cosa spinge una madre a prestare le medesime cure al figlio adolescente e poi adulto finché non si allontana dalla sua famiglia? Con i nostri figli, per marcare la differenza col mondo animale, ricorreva spesso l'immagine di mamma orsa. Che protegge e cura il suo nato finché non lo abbandona con le buone o le cattive quando è diventato in grado di badare a se stesso, il che avviene abbastanza presto.  Quando l'istruzione era riservata solo a pochi e le società si reggevano solo su una economia agricola e commerciale anche l'autonomia del maschio umano era conquista abbastanza precoce: ma paradossalmente coincideva con l'assunzione consapevole da parte sua del lavoro di cura della madre come di una 'naturale'  divisione dei compiti dentro la famiglia. Anzi a questo punto era come se ripagasse quel lavoro della madre con il suo.
La letteratura è piena di madri soddisfatte di questa divisione dei lavori. E' una letteratura scritta da uomini? Credo proprio di sì. In effetti appena le donne hanno preso la penna hanno scritto pagine incandescenti per dimostrare il contrario.
Non sfugge nemmeno a me intuitivamente, ma ho avuto anche l'opportunità di verificarlo. Mia nonna paterna, che ho conosciuto bene, era una madre e una sposa decisamente soddisfatta del suo destino. Ha vissuto quasi cent'anni. All'epoca della mia infanzia, ma poi anche dopo il mio allontanamento, si alzava alle quattro del mattino d'estate,  più tardi nell'inverno. Scendeva nella cantina bene organizzata e infornava il pane, curava le galline, lavava i panni nell'enorme mastello. Svolgeva lì le sue antiche mansioni di contadina, ché tale era nata prima di essere portata in città dal suo uomo. All'ora canonica della sveglia risaliva nelle stanze superiori e tornava cittadina: cure ai nipoti prima della scuola, colazioni per tutti, riassetto della casa, spesa al mercato, fornelli accesi per il pranzo, cucito al pomeriggio, cena, rigoverno della cucina, ultima ad andare a letto. Magrissima, cucinava leccornie e prelibatezze nei giorni di festa ma nei giorni feriali era ugualmente un tripudio. Il suo uomo, un piccolo ma affermato impresario edile, gradiva, fumava il sigaro e poi usciva. A notte lo sentivo russare con clangore di barriti, chissà se la nonna dormiva davvero. O forse russava anche lei e io dormivo.
Quando cuciva d'inverno mi teneva d'occhio. I compiti a casa erano d'obbligo, leggere e scrivere mi venivano bene, disegnare anche, i conti invece non li sapevo fare e i problemi erano la mia vergogna. Allora inventava incentivi, il migliore era qualche lira per ogni problema in più che facevo, le lirette andavano poi di filato dentro il salvadanaio dal quale ogni tanto le sfilavo per spese mie di pennini lucenti e album di figurine. La nostra vita in comune, continuo a pensare, durò troppo poco.
La sua grande casa quasi nel centro di Siena le corrispondeva appieno, sembrava costruita a misura di lei, ma il mondo che si svolgeva fuori di essa le era altrettanto corrispondente. Aveva il Duomo dietro l'angolo e entrare in quella cattedrale era già una preghiera, ma lei non indulgeva, guardava e approvava le ricchezze del pavimento, delle colonne, degli arredi d'oro, dei paramenti di velluto. Ma poi, appena poteva, mi portava con sé a visitare la casa di Santa Caterina. A quel tempo era sempre aperta a tutti e lei sostava incuriosita sullo scalino dal quale, raccontava, i genitori videro Caterina sollevarsi da terra per gettare attraverso la finestra alta pane ai poveri.
Ha avuto quattro figli, cinque nipoti. Finché è vissuta a me è sembrata una donna realizzata e felice. Crucci ne avrà avuti, delusioni e amarezze. Ma quanto la vita porta a tutt* con sé.

domenica 2 febbraio 2014

Lavoro d'amore e lavoro produttivo


Lavoro d'amore e lavoro produttivo


Lavoro d'amore, o di cura, della donna per la riproduzione mi è sempre sembrato simmetrico a lavoro direttamente produttivo del maschio. Come dice anche Melandri in un suo intervento su un social network ci sono donne che non abbandonano volentieri, nemmeno se lavorano anche all'esterno, il potere che sul lavoro di cura hanno organizzato per sé,  perché là sta in definitiva la summa (teologico patriarcale) della propria identità: continuano a non pretendere la condivisione del lavoro di cura e se ne fanno carico magari anche per parenti e affini perché se mollano quel tipo di potere, in una società in cui conta solo avere potere o quasi, cosa rimane loro per sopravvivere? E dunque queste donne vivono dentro una debolezza drammatica di fondo contro la quale sono disposte anche a fare doppio e triplo lavoro. Certo è che, simmetricamente, molti uomini non sanno proprio più cosa fare se viene loro a mancare il cardine della propria identità ovvero il lavoro produttivo: tutti i loro poteri e privilegi, consapevoli e non, vanno a remengo: come fanno a mantenere (nel caso) o proteggere (sempre) moglie e figli? Come fanno a pretendere di conservare il godimento del lavoro di cura?  Con la perdita del lavoro nella nostra società il maschio rischia di perdere identità e privilegi patriarcali e l'umiliazione aumenta se deve ricorrere alla donna che lavora. C'è comunque da tenere conto anche del fatto che molti uomini di ogni età ormai non disdegnano lavori di stampo femminile (tra cui i nostri figli! hai giustamente detto in un incontro con una poeta e romanziera, rivendicando in qualche modo la lezione del femminismo). Ci sono coloro che accettano di condividere bisogni quotidiani come  lavare i piatti e cambiare i pannolini ai neonati,  ma c'è qualcosa in più di questo, infatti anche nel mondo del lavoro direttamente produttivo oggi contano sempre più capacità legate alla relazione e alla mediazione alle quali le donne sono più abituate proprio per educazione di genere. In qualche modo dunque il lavoro di cura è già messo a profitto ovviamente al minimo costo. Il famoso 'salario per il lavoro domestico' degli anni settanta non ha mai convinto nemmeno me, tanto meno quando un vecchio compagno di strada sosteneva apertamente che non si poteva monetizzare 'un atto d'amore'! Tempi ancora difficili per una critica del patriarcato.

Attacco alle donne in Spagna, e non solo



In Spagna c'è un movimento crescente contro la limitazione dell'interruzione di gravidanza proposta dal governo, in Italia iniziative sparse -convegni, proposte che riguardano l'estensione dell'obiezione di coscienza, l'istituzione di cimiteri per feti...- tendono a rendere sempre più difficile il ricorso all'aborto.
Contemporaneamente escono ricerche internazionali che documentano il fatto che l'aborto clandestino è ancora una delle prime ragioni di mortalità delle donne nel mondo.
C'è crisi generalizzata, guerre, fame e violenze diventano sempre più diffuse e minacciano sia i paesi impoveriti che i paesi arricchiti, ma il controllo delle donne, del loro corpo e della loro potenzialità riproduttiva sono in primo piano nelle politiche di gran parte degli Stati.
Anche un'autorità religiosa universalmente apprezzata per il suo "equilibrio" nelle questioni sociali, per la sua "attenzione e sensibilità" nei confronti di chi "soffre" per qualche situazione, non esita a annoverare i feti tra gli orrori dei bambini soldati, dei bambini morti per fame, abusati, vittime di violenze....

Che cosa si cela sotto questi attacchi sistematici, se non il contrasto all'autodeterminazione delle donne, vale a dire la possibilità che una donna scelga in piena libertà, e in accordo con chi è in buona relazione, se portare avanti o interrompere una gravidanza non voluta.

I concetti di autodeterminazione, riappropriazione del corpo, si diceva nei documenti degli anni Settanta, minano alla base l'ordine patriarcale che assegna agli uomini e alle donne due funzioni distinte ma complementari tra loro per la vita di una collettività, la riproduzione biologica e sociale alle donne e la produzione agli uomini.
Ma per mantenere il completo controllo della riproduzione in mani maschili occorre regolamentare minutamente con leggi -umane e divine- norme scritte e non scritte, pratiche collettive di premi e punizioni, fantasie di onnipotenza e/o annichilimento la vita delle donne, pena la messa in crisi del patriarcato.

Secondo me non bisogna mai isolare il tema aborto dall’altro lato della sua medaglia, quello di maternità consapevole, perché altrimenti ci si avvita in una strumentale contrapposizione tra “chi è per la vita” e chi è supposta “contro la vita”.
Al momento della lotta per la legge 194 e del successivo referendum confermativo, ci furono partiti che parlarono di diritto all’aborto, espressione mai impiegata nell'ambito del femminismo, né da me, né da altre. Infatti le diverse anime del movimento, pur nella varietà delle posizioni espresse in merito, che andavano dalla richiesta della depenalizzazione del reato, alla battaglia per ottenere una legge, hanno sempre parlato di autodeterminazione delle donne e di maternità cosciente, avendo ben presente da un lato il dramma psico-fisico che, mentre alcune donne rinunciano a una maternità, per qualunque ragione questo avvenga, altre sperimentano contemporaneamente la difficoltà di programmare una maternità nelle condizioni materiali date, con conseguente frustrazione perché vorrebbero figli/e e non se lo possono permettere.
Il discorso e l'analisi si allargavano quindi ai temi delle morti bianche dovute alla nocività del lavoro e ai ritmi di vita insostenibili.
Negli anni Settanta l’aborto era visto come ultima spiaggia, da evitare in tutti i modi con strumenti preventivi.
Ricordo che a quel tempo era ufficialmente proibita la vendita di anticoncezionali, io stessa ho iniziato a prendere la pillola con ricetta medica (serviva a una mia supposta piccola patologia!!!!!!).

Potenza della lingua, se guardiamo da questo punto di vista, rimettiamo la questione in piedi, dentro la lotta per l’autodeterminazione ci stavano: la denuncia degli aborti bianchi nelle fabbriche (per i ritmi di lavoro), la richiesta di anticoncezionali liberi e gratuiti, la richiesta di attivare le ricerca per anticoncezionali più sicuri e meno dannosi, il rifiuto della medicalizzazione delle fasi fisiologiche delle donne, gravidanza inclusa, la medicalizzazione che espropriava le donne della conoscenza -e quindi del controllo- del proprio corpo e delle sue funzioni, conoscenza fino ad allora delegata ai medici, la lotta per asili nido e servizi socio-sanitari efficienti, la richiesta di consultori, che nacquero con legge del 1976, gratuiti (in Lombardia sono a pagamento da 30 anni !), dove poter incontrarsi tra donne e con esperte/i, sempre per prevenire nascite indesiderate senza dover ricorrere all'interruzione, la legge era intesa come rete di copertura per i casi più sfortunati: violenza soprattutto, ignoranza…., si chiedeva inoltre la fine della discriminazione delle donne sul lavoro a causa delle gravidanze (lettere di dimissioni in bianco...).
Aver voluto oscurare tutto questo ha portato alla situazione attuale di contrapposizione -senza via d’uscita- tra soggetti deboli entrambi: donna in gravidanza accidentale (nel senso di non voluta) e feto (progetto di bambino, non ancora bambino).
La realtà di oggi è che gli aborti clandestini aumentano per migranti e minorenni, perché se uguale è la violenza di cui sono oggetto le donne davanti alla prospettiva di una maternità non scelta, diversi sono i livelli di sofferenza da affrontare, più alti se si è povere, minorenni, migranti, meno attrezzate affettivamente e culturalmente.
Per questo la 194, anche se è apparsa a molte una mediazione tra la depenalizzazione del reato e le istanze ideologiche di condanna assoluta è stata accettata come copertura per le donne più fragili e esposte di fronte a questa evenienza.

La condanna assoluta dell'aborto è una scelta legittima dal punto di vista della sensibilità soggettiva, ma l'imposizione del divieto di interrompere una gravidanza, più o meno mascherato, è una scelta ideologica, come nessuna deve essere costretta a abortire se non vuole, analogamente nessuna deve essere costretta a portare avanti una maternità non voluta, un feto non accolto.

sabato 11 gennaio 2014

Conflitto tra i sessi

CONFLITTO TRA I SESSI

(gennaio 11, 2014 · by femminismoinstrada)


Da quando si sono affermate in Italia le pratiche, le analisi e le teorizzazioni dei vari movimenti delle donne a partire dalla fine degli anni Sessanta, la stampa del sistema si è ingegnata per contrastarle ricorrendo ora all’esplicita derisione, ora all’ironia, spesso alla minimizzazione, travisando idee e concetti, più o meno consapevolmente.
Un’espressione molto in voga nei giornali è guerra dei sessi, considerata a seconda dei casi finita, passata di moda, o ancora attuale.
L’espressione non è mai stata usata nei documenti e nelle parole delle donne che hanno fatto riferimento al femminismo, perché impropria e fuorviante.
Una guerra presuppone sempre un vincitore e un vinto secondo lo schema mors tua vita mea, lo sconfitto può essere ammazzato, annichilito, reso succube, a seconda della volontà del vincitore.
Niente di tutto questo nel patrimonio di idee e consapevolezze femministe, la parola chiave è stata ed è conflitto, che invece si risolve insieme, con mediazioni e accordi che salvaguardano entrambi i soggetti. Certo, la strada della negoziazione in presenza di conflitti è lunga e faticosa, cosparsa di inciampi e ostacoli, costituiti soprattutto da schiavitù interiorizzate, difficili da riconoscere, più potenti dei vincoli esterni, che comunque esistono. Presuppone la volontà di rispetto reciproco, senza violenze materiali e simboliche e senza forzature.
Guerra dei sessi fa tabula rasa di tutto il percorso, riconducendo la questione del conflitto alla solita logica di sopraffazione, agita o subita.
Indica la mentalità di uomini e di donne incapaci di uscire dalla dimensione dei ruoli codificati nel patriarcato, indica la paura che i ruoli vengano semplicemente invertiti, non eliminati.