Il presente porta visibilmente con sé, nei nostri corpi, tutta la nostra storia, pretende un'attenzione che ci lega oltre il privato, oltre l'individualità, oltre l'identità, senza le quali tuttavia la vita non avrebbe senso per il futuro, non ne avrebbe avuto mai nel passato.
Adriana Perrotta, Paolo Rabissi

lunedì 10 febbraio 2014

Le vie di fuga di Assunta e Caterina (da Siena)

Le vie di fuga di Assunta e Caterina.
Eppure non posso fare a meno di pensare che la devozione di mia nonna a Caterina la santa fosse spia di qualcosa che, sia pure in maniera sotterranea se non inconsapevole, fluiva silenziosa dentro di lei, forse la tormentava. Se la prendo alla lontana e parto dal bisogno di socialità della specie umana la figura della giovane Caterina, così apertamente esposta a quel bisogno col suo macerarsi così visibile per l'amore in Cristo e quello schierarsi amorevole e radicale per gli emarginati (che verosimilmente la metteva in dissidio con i genitori e i benpensanti borghesi della città), non funziona proprio come correlativo oggettivo di un bisogno diverso da quello che doveva trovare soddisfazione dentro la chiusa vita domestica famigliare? Che era quanto le veniva prospettato all'età di dodici anni?
C'è una simmetria tra le soluzioni di vita di Caterina e mia nonna? Non erano tanto diverse per estrazione sociale, Assunta e Caterina nascevano, a distanza di cinque secoli e mezzo l'una dall'altra, in una famiglia di piccola borghesia, l'una rurale, l'altra cittadina. Prima di quattro figli Assunta, Caterina invece addirittura la ventiquattresima figlia di un tintore e una casalinga senesi. Caterina era illetterata, a sedici anni quando entra nell'ordine della Mantellate non sa né leggere né scrivere. Poi impara e lascerà un epistolario di 380 lettere, perlopiù indirizzate come è noto ai potenti della terra. Assunta gode nell'Italia unitaria di fine Ottocento della nuova legge che impone per tutti tre anni di scuola elementare. Scriverà poche lettere ai figli e ai nipoti. Era figlia di un fattore in un piccolo borgo di case di contadini, quando l'uomo della sua vita la chiese in sposa lei rifiutò, non le piaceva, ma forse non ne voleva sapere del matrimonio, alla fine però si arrese. Non si arrese invece Caterina, quando a dodici anni pretesero di sposarla la sua opposizione fu irremovibile e sostenne una lotta che dimostrò alla lunga che era disposta a mettere in gioco la vita piuttosto che cedere. Tanto più che la sua devozione a Cristo ormai si manifestava non solo nelle opere di beneficenza e assistenza per poveri e malati ma anche nelle ricorrenti estasi mistiche, nelle visioni, nei colloqui diretti, a suo dire, con lui, (nelle stigmate, 'visibili solo a lei'). Ma soprattutto Caterina non sceglie la clausura, come avveniva frequentemente al suo tempo, tutte queste esperienze  le vive alla luce del sole: un comportamento pericoloso sia per la chiesa che per se stessa dato che l'accusa di magia, stregoneria o eresia era sempre in agguato. 
Ma non è in qualche modo lecito dire che Caterina e Assunta erano entrambe avviluppate dentro il mantello sacrale e mistico del sacrificio? Due linee di fuga equivalenti che denunciavano ciascuno a suo modo, l'una sul versante laico l'altra su quello religioso, l'intrappolamento dentro una gabbia sociale? Non erano forse entrambe additate come simbolo estremo del sacrificio? L'una col mettere tutte le proprie energie al servizio della famiglia, in un ambito dunque laico, l'altra col metterle al servizio della religione, dell'agorà cattolica e cristiana? Da ciascuna cioè secondo il proprio orizzonte più o meno vasto ma da entrambe con la piena esposizione di sé a prototipo, in modo da farsi corpo sociale l'una dell'amore familiare l'altra dell'amore per Cristo?
Entrambe facevano in fondo scandalo. L'oblatività, come dici, delle donne simili ad Assunta,  non è forse scomoda per i più (dovrei dire 'le' più!)? Non assurge forse a comportamento troppo protagonistico? Quasi una lezione pubblica radicale data al mondo, come che le viscere esposte nel lavoro domestico venissero offerte come simbolo della condizione della donna costretta, senza alcuna alternativa concreta, a sacrificare le infinite risorse creative della propria umanità dentro un ruolo unico di assistenza e cura della famiglia, quello che chiamiamo oggi lavoro riproduttivo? E non è del resto proprio questa l'accusa che cominciò a maturare negli ambienti ecclesiastici contro Caterina che, col suo dedicarsi ad oltranza alla carità in nome di Cristo e rischiando di continuo la vita nel contatto con gli appestati e mortificando la carne col digiuno e le rinunce, finiva col denunciare la corruzione e la decadenza della Chiesa?
Mia nonna trattava con sapienza la materia, cuciva e recuperava la lana, cucinava, allevava umani e bestie, faceva marmellate di prugne che mi legano la memoria. Caterina trattava con sapienza uomini e donne, religiosi e non. Caterina, che leggeva libri e scriveva lettere ai potenti, si fustigava per avvicinarsi a Cristo, Assunta, che sapeva leggere a mala pena il giornale parrocchiale e che scriveva righe emozionate in qualche breve lettera ai nipoti, non aveva tempo per una devozione, tanto meno mistica, che non fosse diretta alle fatiche quotidiane e concrete della cura domestica. Ma continuo a pensare che avessero qualcosa in comune. Chissà cosa le passava a mia nonna per la testa quando mi portava in San Domenico ed era tappa obbligata sostare davanti al tabernacolo dove tuttora è custodita la testa della santa. Ahimè, distorsioni della fede, suppongo (ma non è idolatria?). Sembrano illustrare, confermare orizzonti chiusi,  come quelli dei ruoli, dai quali uscire per una vita in equilibrio tra inclinazioni più o meno aperte verso la comunità e mezzi a disposizione, sembra davvero difficile.

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