Nonne d'amore e di cure.
Lavoro d'amore o lavoro di cura?
Sono l'ultimo in grado di dare in proposito una definizione teorica convincente perché viene da chiedermi: dov'è la differenza? Il lavoro di cura di cui si parla, almeno quello diretto da una madre al neonato, non è per sé un atto d'amore? Se un figlio è desiderato, almeno finché manca totalmente di autonomia, cos'altro può spingere una madre a tenerlo pulito, dargli cibo, proteggerlo? Il problema se mai si sposta all'età successiva. Cosa spinge una madre a prestare le medesime cure al figlio adolescente e poi adulto finché non si allontana dalla sua famiglia? Con i nostri figli, per marcare la differenza col mondo animale, ricorreva spesso l'immagine di mamma orsa. Che protegge e cura il suo nato finché non lo abbandona con le buone o le cattive quando è diventato in grado di badare a se stesso, il che avviene abbastanza presto. Quando l'istruzione era riservata solo a pochi e le società si reggevano solo su una economia agricola e commerciale anche l'autonomia del maschio umano era conquista abbastanza precoce: ma paradossalmente coincideva con l'assunzione consapevole da parte sua del lavoro di cura della madre come di una 'naturale' divisione dei compiti dentro la famiglia. Anzi a questo punto era come se ripagasse quel lavoro della madre con il suo.
La letteratura è piena di madri soddisfatte di questa divisione dei lavori. E' una letteratura scritta da uomini? Credo proprio di sì. In effetti appena le donne hanno preso la penna hanno scritto pagine incandescenti per dimostrare il contrario.
Non sfugge nemmeno a me intuitivamente, ma ho avuto anche l'opportunità di verificarlo. Mia nonna paterna, che ho conosciuto bene, era una madre e una sposa decisamente soddisfatta del suo destino. Ha vissuto quasi cent'anni. All'epoca della mia infanzia, ma poi anche dopo il mio allontanamento, si alzava alle quattro del mattino d'estate, più tardi nell'inverno. Scendeva nella cantina bene organizzata e infornava il pane, curava le galline, lavava i panni nell'enorme mastello. Svolgeva lì le sue antiche mansioni di contadina, ché tale era nata prima di essere portata in città dal suo uomo. All'ora canonica della sveglia risaliva nelle stanze superiori e tornava cittadina: cure ai nipoti prima della scuola, colazioni per tutti, riassetto della casa, spesa al mercato, fornelli accesi per il pranzo, cucito al pomeriggio, cena, rigoverno della cucina, ultima ad andare a letto. Magrissima, cucinava leccornie e prelibatezze nei giorni di festa ma nei giorni feriali era ugualmente un tripudio. Il suo uomo, un piccolo ma affermato impresario edile, gradiva, fumava il sigaro e poi usciva. A notte lo sentivo russare con clangore di barriti, chissà se la nonna dormiva davvero. O forse russava anche lei e io dormivo.
Quando cuciva d'inverno mi teneva d'occhio. I compiti a casa erano d'obbligo, leggere e scrivere mi venivano bene, disegnare anche, i conti invece non li sapevo fare e i problemi erano la mia vergogna. Allora inventava incentivi, il migliore era qualche lira per ogni problema in più che facevo, le lirette andavano poi di filato dentro il salvadanaio dal quale ogni tanto le sfilavo per spese mie di pennini lucenti e album di figurine. La nostra vita in comune, continuo a pensare, durò troppo poco.
La sua grande casa quasi nel centro di Siena le corrispondeva appieno, sembrava costruita a misura di lei, ma il mondo che si svolgeva fuori di essa le era altrettanto corrispondente. Aveva il Duomo dietro l'angolo e entrare in quella cattedrale era già una preghiera, ma lei non indulgeva, guardava e approvava le ricchezze del pavimento, delle colonne, degli arredi d'oro, dei paramenti di velluto. Ma poi, appena poteva, mi portava con sé a visitare la casa di Santa Caterina. A quel tempo era sempre aperta a tutti e lei sostava incuriosita sullo scalino dal quale, raccontava, i genitori videro Caterina sollevarsi da terra per gettare attraverso la finestra alta pane ai poveri.
Ha avuto quattro figli, cinque nipoti. Finché è vissuta a me è sembrata una donna realizzata e felice. Crucci ne avrà avuti, delusioni e amarezze. Ma quanto la vita porta a tutt* con sé.
Una scrittura a quattro zampe. Il blog ci nomina con una delle identità che orientano le nostre scelte di vita e di pensiero, sono quelle che meglio, e da più lungo tempo, ci rappresentano sia nel nostro nucleo affettivo di figli, nuore, nipoti e amic*, sia all’esterno. Sono anche le due dimensioni che ci vedono con maggiore continuità impegnat* nella ricerca e nello studio, nonché le dimensioni che fanno scattare tra noi a volte solidarietà e complicità a volte litigi più o meno interminabili.
Il presente porta visibilmente con sé, nei nostri corpi, tutta la nostra storia, pretende un'attenzione che ci lega oltre il privato, oltre l'individualità, oltre l'identità, senza le quali tuttavia la vita non avrebbe senso per il futuro, non ne avrebbe avuto mai nel passato.
Adriana Perrotta, Paolo Rabissi
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