Il presente porta visibilmente con sé, nei nostri corpi, tutta la nostra storia, pretende un'attenzione che ci lega oltre il privato, oltre l'individualità, oltre l'identità, senza le quali tuttavia la vita non avrebbe senso per il futuro, non ne avrebbe avuto mai nel passato.
Adriana Perrotta, Paolo Rabissi

domenica 20 luglio 2014

Metafora o metonimia?

Mia nuora mi ha affidato qualche sera fa il compito di mettere a dormire la mia nipotina di quasi tre anni, mi ha avvertito di leggerle due libri e poi lasciarla previo bacino e promessa di eventi piacevoli il giorno seguente. Questa è la prassi da lei adottata quando accompagna a letto la piccola, il che accade più raramente rispetto al papà, che non indugia in letture, riducendo il rito a pochi minuti di coccole.
E per questo la mette a letto lui abitualmente.
Io diligentemente le ho letto  il primo libro, e poi il secondo -breve- di ninne-nanne, ma la lettura del primo è durata un'ora. Vedevo che nel frattempo le si chiudevano gli occhi, ma appena abbassavo il tono della voce le si spalancavano di nuovo, e lei mi fissava con l' intenzione di controllare quello che stavo facendo.
Alla fine bacino e promessa di un lungo bagno nel mare insieme il giorno dopo.
Quando ho raccontato l'episodio, risata generale, a partire da mio marito, che già si era stupito della lunghezza della lettura da me effettuata e sosteneva che avevo frainteso la consegna.
In effetti il libro in questione era suddiviso in storie illustrate, che si succedevano come capitoli, con gli stessi personaggi.
Mia nuora intendeva dire che dovevo leggere una o due storie, e semmai contrattarne una terza, e poi il libro delle ninne-nanne, a conclusione.
La risata generale con la quale è stata accolta la mia perfomance mi ha suggerito una risposta sintetica: io sono metonimica, poco metaforica, se mi si dice un libro io intendo il libro nel suo complesso, altrimenti mi si deve dire capitoli, episodi, racconti....
Al di là dell'aneddoto mi sono tornate in mente le indagini sociolinguistiche degli anni Sessanta, svolte in area prevalentemente anglofona, che ritenevano di aver individuato una "lingua delle donne" in un insieme di espressioni e intonazioni che avevano a che fare con un'abbondanza di formule di cortesia, con la preferenza verso  la domanda invece dell'affermazione, o nel caso di una necessaria affermazione con l'uso contestuale di formule attenuative,  con il ricorso frequente alla seconda o terza persona invece che alla prima...e via dicendo. Salvo poi accorgersi e convenire sul fatto che queste strategie comunicative sono comuni a tutti/e  gli/le appartenenti a gruppi sociali subalterni, deprivati culturalmente e socialmente, indipendentemente dal sesso, specie in interazione con appartenenti ai gruppi dominanti.
Lungi quindi da me l'idea di un comportamento ascrivibile a una presunta "lingua delle donne", tuttavia certi tratti distintivi di questa fantasmatica lingua mi sono propri.

Nessun commento:

Posta un commento