Siena è
l’indicibile. Il non risolto. Come poteva essere il mondo e come non lo fu. Per
quante volte io possa tornarci non riuscirò mai a sciogliere né in risa né in
lacrime il grumo di emozioni che mi si abbarbica tra gambe stomaco e cervello.
Siena poteva essere il risolto ma diventò presto indicibile, una pausa da
rimuovere. Una stagione di vita improvvisa come una resurrezione dopo la morte
dell’anno precedente a Trieste. Una stagione di vita improvvisa prima della
nuova stagione di morte a Montecatini sudario per una veglia solitaria. Perché
chiunque essi siano tuo padre e tua madre finché non impari a tenerli a bada
dispongono di te e ti rovistano nell’intestino e rovesciano le tue budella
sull’impiantito e ci camminano sopra con
scarpe pesanti e tu a chiederti che colpa hai commesso che di qualcosa devi pur
essere colpevole. Se continuo a portarti a Siena è perché mi illudo di riuscire
una volta per tutte a sciogliere in lacrime o risa quel grumo di emozione che
mi assale nel tornarci. Celebriamo allora anche qui i nostri riti di flaneur e
su e giù per la città torno a raccontarti le mie storie mentre ormai guidi tu
tanto qualunque percorso disegniamo non c’è angolo acuto di palazzo antico o
pietra pulita di pioggia o cortile di archi in ombra che non mi rammenti le
cose vive di quella stagione. Intanto entriamo in città da porta San Marco e
lasciata l’auto la strada sale di poco fino ad uno slargo dove c’è ancora la
mia scuola quinta elementare anno 1950 e solo più su la casa del mio maestro
che era stato anche maestro di mio padre. Vuoi mettere? Lui non c’era ma in
quella scuola mi sono sentito davvero nominare in vita ed era come se fossi
tornato finalmente a casa.
Poi prendiamo
via Stalloreggi che ci si entra dalla porta che dà sul Piano dei Mantellini e
che subito sulla destra c’è la casa di Duccio con la sua facciata uguale a
com’era quando lui e sua moglie che aveva posato da Madonna si decisero a
consegnare la Maestà alla quale lavorava da anni alle autorità comunali che
gliel’avevano commissionata e grande com’era quella predella ci vollero decine
di portatori che la portarono per strada e lui che la seguiva precedendo la
processione di autorità e popolo preoccupato che nessuno la sporcasse finché
entrò sana e salva in Duomo. Trecento metri più su proprio di fronte alla
Piazzetta del Conte con la bella fontana dedicata alla pantera simbolo della
contrada di quel quartiere c’è l’antica casa di famiglia nella quale ormai vive
l’ultima Rabissi novantenne. La casa mi sembrò una reggia. Tutto era
incommensurabilmente più grande e ricco della povera casa di ringhiera della
nonna materna a Trieste, due stanze nella quale vivevamo in cinque, anno della
quarta elementare un anno di abbandono quasi totale da parte dei miei, anno
freddo per la bora che entrava anche in casa, freddo per la solitudine con
parenti freddi, freddo per la assoluta incapacità da parte del maestro di
parlarmi, di interessarmi, tranne negli ultimi giorni di scuola quando mi
avvisò di prepararmi bene perché avrebbe fatto un’ultima interrogazione
generale, miserabile maestro che non si preoccupò nemmeno di sapere se il
sussidiario ce l’avevo. Non ce l’avevo. Miserabili anche i miei e miserabili
anche i parenti con cui vivevo. Me lo feci prestare da un compagno di scuola
per qualche giorno in cui qualcosa devo aver messo a mente ma non abbastanza
perché non so di preciso come è finita tranne che a settembre ho dato degli
esami e l’anno dopo ero in quinta qui a Siena al caldo accudito amorevolmente
dalla nonna e dal nonno dalle zie dal cugino da parenti più o meno prossimi
chiassosi e sempre in movimento.
In quell’anno
ebbi anche modo addirittura di mitizzare mio padre lontano eppure presente
nella casa e nella città dove tutto mi sembrava provenisse direttamente da lui
come un suo messaggio potente un invito a godere finalmente della vita che
quella era vita e non quella dell’anno precedente. Come se lui non avesse
nessuna responsabilità dello stato di privazione in cui avevo vissuto o di
quello che mi aspettava nell’anno successivo! Quel mito era un fantasma che
m’incantava e regalava allucinazioni del suo palazzo nella sua città così ricca
e sontuosa di torri chiese capitani di sestieri e condottieri fabbri e
carpentieri giganteschi ed eventi spettacolari. Ma se a scuola quell’anno ebbi
un rendimento scolastico eccellente ciò fu dovuto in massima parte al benessere
psicologico e fisico procuratomi dalle cure delle due donne di casa, mia nonna
soprattutto e sua figlia, Jolanda.
“…che farà
questo cittino ce la farà a studiare?” si chiedeva la nonna mentre vicino al
caminetto spennava il pollo, quello stesso che appeso a testa in giù col collo
tirato nello stanzino aveva continuato ad agitarsi scuotendo le ali per tutta
la notte e mi dava poi cinque lire per ogni problemino di matematica in più che
risolvevo da mettere subito dentro un salvadanaio di coccio che una volta ero
riuscito a svuotare per metà con una tecnica che mi aveva insegnato mio cugino
per andare a comprare una bellissima penna blu e quelli furono piaceri uguagliati
solo dal permesso di scendere con lei nei fondi e quello era il mondo suo
riservato ma anche del nonno però per motivi diversi. A lui interessava uno
stanzino in fondo in fondo alla cantina di cui solo lui aveva la chiave e una
volta che mi ci fece entrare per poco svenni per l’odore acre di vino che
veniva da un paio di botti e notare che lì dentro comunque c’era ben altro,
c’erano un paio di presciutti, come li chiamava lui, appesi profumati, era una
faccenda in corso tra me e lui quella perché una mattina che lui faceva
colazione con prosciutto e vino io lo guardavo e lui mi ha fatto sedere e ha
cominciato ad affettare e io ne ho mangiato tanto così da indigestione con
febbrone e mia nonna che brontolava accidenti a te accidenti a te, rivolta al
suo uomo. La nonna in cantina scendeva prestissimo quando doveva infornare il
pane nell’ampio forno a legna che poi serviva per tutta la settimana e
conservava il lievito madre avvolto in un lenzuolo dentro una madia lì nei
fondi che c’era sempre fresco anche d’estate ma io andavo che il pane era già
cotto e allora l’aiutavo a sistemarlo nella madia avvolto in lenzuoli accanto
ai barattoli di marmellata compresa quella di susine. All’inizio dell’inverno
l’unico vissuto con lei mi portò da un sarto e mi fece fare un cappotto, è
rimasta una foto e sono elegantissimo e quel cappotto a Siena che d’inverno si
sa fa sempre freddo era per me d’un calore esagerato devo averlo mitizzato un
po’ come se io fossi un senese vero anche perché lei come era solita fare ci
aveva imbastito su una delle sue storie di santi e qui c’era di mezzo Francesco
che passando per Siena interrogato sulla forma da dare alla piazza in
costruzione aveva disteso per terra il suo mantello e quella fu la forma della
piazza e ogni tanto il mio me lo toglievo per guardarmelo e non so non ricordo
però credo che a indossarlo dentro di me mi ricordavo del freddo patito l’anno
prima a Trieste che quando uscivi la bora ti sollevava da terra e tenevi
stretta la mano di qualcuno o ti attaccavi alle ringhiere di ferro gelato e
insomma qualcosa vuol dire perché lì il cappotto io non ce l’avevo. Ma a te
voglio anche dire questo voglio dirti che da qualche parte tra intestino e
cervello si è in quegli anni aperta una ferita, una ragade di quelle che non si
chiudono mai e che impari solo col tempo a governare. Il problema vero è però
che se ti abitui a sopportare il dolore finisce che perdi la memoria della
causa, ti porti dietro un disturbo che condiziona il tuo quotidiano e tu non te
ne accorgi. Così non lo curi più di tanto e non sai che invece ti fa assumere
certe posture o avere certe reazioni nelle relazioni col mondo del cui portato
negativo non ti accorgi e che non avresti scelto se non avessi perduto il
controllo e la coscienza di quel disturbo originario. E’ allora che il passato
incistato vince su di te e ti inimica al mondo. Allora occorre ricominciare
daccapo e recuperare la memoria di come sei stato da dove vieni. ll dolore in
fondo è irrilevante, importante è conoscerne la fonte e imparare a guardarsene.
A lasciarti
guidare lo so che prima o poi mi tiri giù per Via Di Città per svoltare poi
nella ripida discesa che sbuca in Fontebranda. Come se non avessi da
raccontarti altre storie mie su quel percorso che poi alzando la testa proprio
sopra gli archi della fonte dove incisa nella pietra sta la terzina di Dante
che la nomina ti si staglia imponente San Domenico l’immensa basilica di quei
frati domenicani che odiamo più di altri per via della loro Santa Inquisizione.
Con nonna Assunta era un percorso da fare di corsa perché lei non camminava ma
correva, svelta svelta caracollandole io dietro leggera leggera su
quell’acciottolato lucido dei passi di miliardi di piedi e non c’era tempo per
chiacchiere inutili salire a San Domenico era una tappa obbligata quasi una
processione settimanale e proprio come
fai tu si fermava nella Cappella delle Volte davanti al dipinto di Andrea Vanni
di Santa Caterina che lui l’aveva conosciuta e ne era stato discepolo devoto
recitava una preghiera in silenzio e non ha mai preteso che lo facessi anch’io
chissà forse perché mi considerava già perduto con quel padre fuori di testa
che andava in giro a cantare e con una madre che era meglio non l’avesse
incontrata mai. Però quando tornavamo indietro era d’obbligo la visita alla
casa di Santa Caterina che allora era aperta sempre a chi voleva sostare per
una preghiera o per visitarla compresa la celletta quella invece chiusa dalla
quale la santa distribuiva il suo pane ai poveri da una finestrella e quando il
padre severo la sorprese lei volò sugli scalini e quello era proprio un
miracolo e nonna Assunta non me lo risparmiava ma insisteva tutte le volte a
raccontarmelo e a Natale l’unico a dire il vero con lei mi portava a visitare
tutti i presepi e mi raccontava vite dei santi e insomma mi faceva catechismo
senza che me ne accorgessi ma poi trovava anche il tempo in autunno, l’unico a
dire il vero con lei, di portarmi fuori porta a raccogliere castagne e pigne
che mettevo vicino al camino perché si aprissero per non parlare della
vendemmia, l’unica della mia vita, in cui mi addormentai in un canto stroncato
dalla stanchezza mentre gli altri facevano baldoria pigiando seminudi l’uva nel
grande tino. E quando fu inverno che le lenzuola nel letto erano freddissime
arrivava lei con il prete e le braci raccolte nel caminetto. Assunta certo che
ancora in età tarda pensava a scrivermi
due righe di esortazione e fiducia. Poi c’era Jolanda che riceveva in casa il
fidanzato ma mi risentiva le lezioni prima di cena e curava di vestirmi lavarmi
ecc. Ogni tanto da Firenze scendeva mio cugino con sua madre severissima che
rileggeva i miei temi e li trovava sempre pieni di errori lui aveva la mia
stessa età e fece di tutto con la sua compagnia con doni piccoli per aiutarmi a
superare la mia tristezza di ragazzino. Il mio maestro era contento di me e io
di lui perché mi faceva leggere in classe ad alta voce, perché quella volta in
cui mi interrogò su Giuseppe Verdi e io mi soffermai sul fatto che Verdi aveva
scritto il Falstaff quando ormai era un vecchietto lui commentò ad alta voce
che quel mio interesse era dovuto al fatto che avevo un padre tenore chissà se
sapeva che mio padre, stato già giovane promessa senese del bel canto, in
realtà cantava nelle operette con un altro nome Renzo Bassi insomma era un
Rabissi anagrammato.
Scendiamo
pure al mercato dietro il palazzo del Comune da dove si intravedono le arcate
con i gessi di Della Quercia di Fonte Gaia e verso est si vede la bella chiesa
di San Bernardino lì con nonna Assunta ci arrivavamo da vicoli diversi fino a
sbucare nel piazzale per comprare frutta e verdura e io mi caricavo volentieri
delle borse e al ritorno facevo il fiatone. L’ho amata e riconosciuta sempre di
più quando sono tornato a visitarla lei e la sua Siena nel corso degli anni
successivi e tutte le volte era la stessa emozione diglielo tu, diglielo tu a
tuo padre di smetterla di cantare e di cercare un lavoro vero io ridevo ma
forse in qualche modo sono riuscito a farle capire quanto le volevo bene e che
l’anno trascorso con lei era stato l‘anno più bello della mia infanzia e di
tutta la mia vita prima di conoscere te e abbiamo corso il rischio io e te di
non incontrarci pensa se mi lasciavano per sempre lì con lei che quando
ripartivo mi metteva sempre soldi in tasca e la mattina mi accompagnava da casa
fino alla fermata dell’autobus che mi portava alla stazione. Poi è morta. Madre mia vera madre impossibile
madre di un giorno solo.
Insomma una
famiglia patriarcale toscana. Che meraviglia! Assunta veniva dalla campagna
senese, nata nel 1890 aveva assolto l’obbligo del triennio delle elementari
entrato in vigore da qualche anno, era di famiglia contadina modesta e la
domenica frequentava una sala da ballo in un paesino a qualche chilometro dalla
città. Lì arrivò Giuseppe con un’aria da cittadino ben messo, così racconta
Jolanda, di una certa corporatura mentre Assunta era minuta col volto sfilato,
nella foto che conservo di loro due al matrimonio lei ha anche un’aria un po’
rassegnata ma credo che fosse per soggezione di fronte alla macchina
fotografica mentre lui ha un’espressione accogliente di giovane buono. La
domenica mattina dopo aver pagato i suoi operai lui che da muratore s’era fatto
imprenditore edile chiamava me e mio cugino alla sua scrivania e dava paga
anche a noi. Di lui ho conservato un panciotto, la scrivania e la macchina da
scrivere che usava, una Remington del 1930. Giuseppe in quel ballo rimase
colpito da lei e la volta dopo tornò con una catenina da cui pendeva un
orologio un regalo di gusto che Assunta rifiutò energicamente ma i due si
sposarono di lì a pochi mesi. Andava così. Il matrimonio fu desiderato da
entrambi come il destino di una vita anche se a giudicare dall’episodio a uno
gli può venire in mente che sia stato un atto di compra vendita, un orologio
con catena in cambio di che? Assunta era una donna spiritosa e quando passava
vicino ai giovani che facevano pausa sotto gli alberi li stuzzicava, siete
arrivati all’America eh? Così racconta Jolanda mia vecchia zia che accompagna
la ricostruzione delle mie memorie. A ruoli fissati, imprenditore di qualche
fortuna lui, Assunta era come diresti tu una madre oblativa tutta dedita al
lavoro di cura educazione e sostegno del marito dei figli e della casa. La sua
linea di fuga era il culto dei suoi santi non dei preti, di Caterina e
Francesco in particolare, dei quali sapeva un mucchio di storie.