Se mi si dice libro anch’io capisco libro e non capitolo. Per cui verrebbe da dire che in definitiva è stata tua nuora (anche mia) a essere metonimica. In questo caso sembra aver usato una sineddoche (più nota forse all’inverso nell’uso di espressioni in cui una parte viene nominata al posto dell’intero) che è considerata molto prossima alla metonimia. Il che confermerebbe quanto dici a proposito dell’appartenenza di genere del linguaggio metonimico. Ma per l’appunto la faccenda non regge e semmai quel linguaggio è da ascrivere non a una ‘lingua delle donne’ ma più in generale a tutti i gruppi sociali subalterni, deprivati culturalmente e socialmente. Cioè a chi, di fronte alle istituzioni pubbliche (e ai potenti) si sente in minoranza e imbarazzato per via della mancanza sia di proprietà linguistica sia di articolazione retorica, che appartengono a chi ha studiato, letto e scritto. Mi viene in mente la novella di Simona e Pasquino di Boccaccio che tu ricorderai senz’altro (anche perché fosti tu a indicarmela come lettura importante per i nostri allievi!). Lì le cose sono chiare al di là delle intenzioni dell’autore. Simona, affranta e in lacrime per la morte del suo amante non è capace di spiegare con le sue parole di popolana commossa e ignorante la morte di Pasquino per la quale è fortemente sospettata. Il giudice, a causa del fatto che non riesce a comprendere la spiegazione di Simona, decide di riportarla davanti al cadavere e lì le chiede di spiegarsi meglio: Simona rinuncia alle parole e adopera i gesti, si passa fra i denti delle foglie di salvia così come aveva fatto Pasquino prima di morire. Il dramma così giunge al suo apice. La salvia, resa velenosa da un rospo che aveva fatto tana nel cespuglio, uccide anche Simona, popolana senza parole bastanti. Tanto per restare in tema di figure retoriche, la novella puoi prenderla come ‘antitesi’ al tuo dilemma ‘metafora o metonimia’. Perché mettere in discussione una questione simile tutto significa tranne che essere incolte e prive di parole come Simona. E allora la questione torna all’inizio: perché l’uso della parola ‘libro’ al posto di capitolo? E poi: perché così tanto rispetto per la lettera del mandato? Perché T. adopera una sineddoche invece della parola precisa, tanto più necessaria quando si danno istruzioni? E perché tu non hai colto il senso metaforico o metonimico che fosse, direi quasi ignorandolo piuttosto che correre il rischio di non rispettare l’istruzione? Io penso che l’una e l’altra cosa dipendano dall’intreccio, poco districabile forse, del vostro amore verso il libro da una parte e da una certa vostra condizione paritaria di intellettuali. Quale appello istruttivo di maggiore efficacia, e nello stesso tempo di rispetto per come sei, poteva trovare T. che richiamasse la tua attenzione, conoscendo lei la tua profonda passione per il ‘libro’, passione dalla quale lei stessa è coinvolta? E quale migliore risposta da parte tua se non quella di rispettare appieno la nominazione di ‘libro’, costasse anche sedici capitoli? Quando dopo più d’un’ora che leggevi sono entrato a dirti che mi sembrava che tirassi troppo per le lunghe i rituali dell’addormentamento mi hai risposto sicura: beh, sono solo al primo libro!
Una scrittura a quattro zampe. Il blog ci nomina con una delle identità che orientano le nostre scelte di vita e di pensiero, sono quelle che meglio, e da più lungo tempo, ci rappresentano sia nel nostro nucleo affettivo di figli, nuore, nipoti e amic*, sia all’esterno. Sono anche le due dimensioni che ci vedono con maggiore continuità impegnat* nella ricerca e nello studio, nonché le dimensioni che fanno scattare tra noi a volte solidarietà e complicità a volte litigi più o meno interminabili.
Il presente porta visibilmente con sé, nei nostri corpi, tutta la nostra storia, pretende un'attenzione che ci lega oltre il privato, oltre l'individualità, oltre l'identità, senza le quali tuttavia la vita non avrebbe senso per il futuro, non ne avrebbe avuto mai nel passato.
Adriana Perrotta, Paolo Rabissi
lunedì 21 luglio 2014
domenica 20 luglio 2014
Metafora o metonimia?
Mia nuora mi ha affidato qualche sera fa il compito di mettere a dormire la mia nipotina di quasi tre anni, mi ha avvertito di leggerle due libri e poi lasciarla previo bacino e promessa di eventi piacevoli il giorno seguente. Questa è la prassi da lei adottata quando accompagna a letto la piccola, il che accade più raramente rispetto al papà, che non indugia in letture, riducendo il rito a pochi minuti di coccole.
E per questo la mette a letto lui abitualmente.
Io diligentemente le ho letto il primo libro, e poi il secondo -breve- di ninne-nanne, ma la lettura del primo è durata un'ora. Vedevo che nel frattempo le si chiudevano gli occhi, ma appena abbassavo il tono della voce le si spalancavano di nuovo, e lei mi fissava con l' intenzione di controllare quello che stavo facendo.
Alla fine bacino e promessa di un lungo bagno nel mare insieme il giorno dopo.
Quando ho raccontato l'episodio, risata generale, a partire da mio marito, che già si era stupito della lunghezza della lettura da me effettuata e sosteneva che avevo frainteso la consegna.
In effetti il libro in questione era suddiviso in storie illustrate, che si succedevano come capitoli, con gli stessi personaggi.
Mia nuora intendeva dire che dovevo leggere una o due storie, e semmai contrattarne una terza, e poi il libro delle ninne-nanne, a conclusione.
La risata generale con la quale è stata accolta la mia perfomance mi ha suggerito una risposta sintetica: io sono metonimica, poco metaforica, se mi si dice un libro io intendo il libro nel suo complesso, altrimenti mi si deve dire capitoli, episodi, racconti....
Al di là dell'aneddoto mi sono tornate in mente le indagini sociolinguistiche degli anni Sessanta, svolte in area prevalentemente anglofona, che ritenevano di aver individuato una "lingua delle donne" in un insieme di espressioni e intonazioni che avevano a che fare con un'abbondanza di formule di cortesia, con la preferenza verso la domanda invece dell'affermazione, o nel caso di una necessaria affermazione con l'uso contestuale di formule attenuative, con il ricorso frequente alla seconda o terza persona invece che alla prima...e via dicendo. Salvo poi accorgersi e convenire sul fatto che queste strategie comunicative sono comuni a tutti/e gli/le appartenenti a gruppi sociali subalterni, deprivati culturalmente e socialmente, indipendentemente dal sesso, specie in interazione con appartenenti ai gruppi dominanti.
Lungi quindi da me l'idea di un comportamento ascrivibile a una presunta "lingua delle donne", tuttavia certi tratti distintivi di questa fantasmatica lingua mi sono propri.
E per questo la mette a letto lui abitualmente.
Io diligentemente le ho letto il primo libro, e poi il secondo -breve- di ninne-nanne, ma la lettura del primo è durata un'ora. Vedevo che nel frattempo le si chiudevano gli occhi, ma appena abbassavo il tono della voce le si spalancavano di nuovo, e lei mi fissava con l' intenzione di controllare quello che stavo facendo.
Alla fine bacino e promessa di un lungo bagno nel mare insieme il giorno dopo.
Quando ho raccontato l'episodio, risata generale, a partire da mio marito, che già si era stupito della lunghezza della lettura da me effettuata e sosteneva che avevo frainteso la consegna.
In effetti il libro in questione era suddiviso in storie illustrate, che si succedevano come capitoli, con gli stessi personaggi.
Mia nuora intendeva dire che dovevo leggere una o due storie, e semmai contrattarne una terza, e poi il libro delle ninne-nanne, a conclusione.
La risata generale con la quale è stata accolta la mia perfomance mi ha suggerito una risposta sintetica: io sono metonimica, poco metaforica, se mi si dice un libro io intendo il libro nel suo complesso, altrimenti mi si deve dire capitoli, episodi, racconti....
Al di là dell'aneddoto mi sono tornate in mente le indagini sociolinguistiche degli anni Sessanta, svolte in area prevalentemente anglofona, che ritenevano di aver individuato una "lingua delle donne" in un insieme di espressioni e intonazioni che avevano a che fare con un'abbondanza di formule di cortesia, con la preferenza verso la domanda invece dell'affermazione, o nel caso di una necessaria affermazione con l'uso contestuale di formule attenuative, con il ricorso frequente alla seconda o terza persona invece che alla prima...e via dicendo. Salvo poi accorgersi e convenire sul fatto che queste strategie comunicative sono comuni a tutti/e gli/le appartenenti a gruppi sociali subalterni, deprivati culturalmente e socialmente, indipendentemente dal sesso, specie in interazione con appartenenti ai gruppi dominanti.
Lungi quindi da me l'idea di un comportamento ascrivibile a una presunta "lingua delle donne", tuttavia certi tratti distintivi di questa fantasmatica lingua mi sono propri.
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